martedì 31 maggio 2011

Uguali, no. Sulle pensioni per i repubblichini

Non è una materia che senta mia, in verità, e nemmeno la notizia è poi più eclatante di altre; però qualcosa sulla proposta di legge di equiparare ai fini pensionistici partigiani e repubblichini non mi va giù.
Intendiamoci: non ho mai subito il mito partigiano e il luogo comune che la Repubblica sia fondata sui valori della Resistenza mi ha sempre lasciato scettico. Ho perfetta coscienza che molti hanno approfittato del dichiararsi partigiani per regolare conti extrapolitici e assolversi dal puro assassinio. Che più d'uno abbia optato per la montagna quando gli altri ne erano scesi.
Così come immagino che, avessi avuto vent'anni nel '43 e la mia idiozia dell'età si fosse vissuta in Veneto, avrei persino potuto essere repubblichino anch'io; e che tanti lo siano stati per ragioni analoghe. Ho anche sempre reputato piazzale Loreto un comprensibile ma ingiustificabile scempio.
So, figurarsi, che la storia la scrivono i vincitori: anche se non mi sembra che i veri partigiani, quelli che hanno combattuto credendo negli ideali, quelli che sono stati torturati e uccisi, quelli che si sono assunti l'onere di decisioni tremende, siano poi stati i vincitori, che siano stati loro a mettere a frutto la vittoria.
Ma, insomma, occorre che le responsabilità siano chiare. Sono per il perdono, non per l'oblio; con questo non c'è perdono, perchè ci sia serve che il dolore sussista. Non va bene: gli sbagli si pagano. Uno Stato serio non lascia nessuno morire di fame, ma non può far finta che la scelta della libertà sia come quella della sopraffazione.


P.S.: un premio a chi scopre tutti gli errori della ineffabile "Redazione online" del Corsera!

lunedì 30 maggio 2011

Altri alberi, altri haiku

Gli ippocastani
svelan mirabolani,
non melograni



Invidia duro
dall’alto il pino mugo
le api al sambuco



Più non s’accosta
dopo il rio senza scopo
il loppio al pioppo

venerdì 27 maggio 2011

Alberi in haiku

C’erano un bosso,
un tasso, un sassofrasso
a ornare il frassino


Olmi, alni; palme
tra il fitto dell’inverno
inusitate


Colore a faggio
maggiociondolo dà
a scorta estate


Il palissandro
carioca cinge al parco
il greco oleandro


Larice l’acero
pur rosso si promette:
ne piange il salice

giovedì 26 maggio 2011

Speranza vs. illusione / Hope vs. illusion

ITALIANO
Talvolta ho discettato di speranza e illusione.
È un tema che mi è sempre apparso tipico di una condizione del vivere drammatica. La differenza è evidente. Si spera sinché sussiste una realistica possibilità di avveramento; quand’essa decade, continuare a credere è illudersi.
In fondo, speranza è legata all’azione: se spero che una cosa mi accada, lavoro perché ciò avvenga. Se al contrario rimango inerte e attendo, mi illudo.
È anche vero che l’illusione può salvarci, la speranza condannarci: quando l’azione conseguente a quest’ultima ci danneggia, ci spinge a una pericolosa coazione. C’è chi si illude che un giorno vincerà al superenalotto: S’illude perché in realtà non gioca mai le schedine; ma chi ci spera e tre volte a settimana spende e rispende può rovinarsi economicamente.

Certo, la cosa più difficile è comprendere dove finisce una e l’altra comincia. È un confine anche di sofferenza. “È segnato in rosso sulla carta del mio cuore”, scrissi una volta.


ENGLISH
I sometimes debated on hope and illusion.
It is a theme that has always seemed to me typical of a dramatic condition of living. The difference is obvious. One hopes as long as there is a realistic possibility of fulfillment; when it declines, continuing to believe is to be under an illusion.
After all, hope is linked to action: if I hope that something happens to me, I do work to make this happen. If, on the contrary, I lie dormant and wait, I deceive myself.
It is also true that the illusion can save us, hope condemn us: when the consequent action hurts us, pushes us to a dangerous compulsion. There are those who deceive themselves that one day they’ll win the lottery. Illusion because in reality they never buy tickets, but those who hope and three times a week spend more and more, they can ruin themselves economically.
Of course, the hardest thing is to understand where the one ends and the other begins. It is also a boundary of suffering. "It is marked in red on the map of my heart, " I once wrote.

mercoledì 25 maggio 2011

Ancora di archeologi

Ancora a proposito di archeologi occorre dire che a forza di frequentarli qualcosa di loro ho capito. Non molto, ma quello che basta per orizzontarmi. Sono un un pianeta vasto e contrastato. Partirò dalle impressioni.
L’impressione che si conoscano tutti e tutti si detestino. L’impressione che solidarizzino finché poveri, come a lungo sono, e si azzannino alla sola idea del denaro. L’impressione che si riconoscano subito tra quelli che ci credono, sempre finché poveri, e quelli che sgomitano. Che considerino giustamente superata la concezione di archeologia scienza ausiliaria della storia ma che intendano sostituirla con quella di storia scienza ausiliaria dell’archeologia. Che guardino al mondo solo con gli occhi dell’archeologo e considerino le espressioni culturali non passibili di metodo archeologico come secondarie; o ausiliarie!
E poi le certezze.
La certezza che siano i maggiori salvatori del residuo patrimonio culturale di questo sventurato Paese. La certezza, per quasi tutti, della pretesa che la competenza sugli oggetti li renda capaci anche di comunicarli ai pubblici. La certezza che tanta parte di essi siano piuttosto degli storici dell’arte antica. Che troppi considerino il loro museo un gioco privato. Che, essendo in maggioranza donne, qualche maschio lo diventi per cuccare. Che odino gli architetti e da essi siano odiati.

martedì 24 maggio 2011

Commuovermi

ah, sì,
            una cosa
                            ancora la so fare



beh, nonostante tutto



malgrado il quotidiano



una cosa io la so ancora fare







Commuovermi

lunedì 23 maggio 2011

Questo post no - This post not

Questo post non parla di poesia e neanche di sesso, no poetry & no sex. Non di Belen nuda o delle foto della Canalis, non più di Pasolini e neppure di Tiziano Scarpa. Un po' di caos c'è, forse un caos calmo senza Nanni Moretti. Tette grosse o piccole, niente, big tits, nothing. Des salopes, pas du tout. Piuttosto è una prova, un essai, a test, come si fa la paella, como se hace la paella. Come andare in Formula 1 con una Ferrari sgonfia, donne e motori senza fica e senza benzina, senza caro benzina, senza previsioni meteo per la tua città. Un google lento e inutile come Madonna iconizzata, e poi quindi a cascata blowjob & handjob, doggy style with a milf al suono degli U2 o dei Coldplay. Micheal Jackson è morto lontano da Avetrana e non una povera Melania ne coglie l'ombra. Ricette, recipts, per la pasta niente. Ah, l'amour! L'amore, this is love, love is what you need sang Beatles. Chi tra Lennon e McCarteny? Mick Jagger dei Rolling Stones, rotolanti con Bob Dylan e non rollanti con Bob Marley.
Ed è solo una prima prova.
Vediamo un po'.

venerdì 20 maggio 2011

Tanti archeologi

Una volta il collega S.P., ottimo archeologo, mi dimostrò quanto varie potessero essere le competenze che compongono la sua professione.
Gli diedi una mano a organizzare uno scavo simulato per la classe di suo figlio e avemmo l’idea di affidare a ogni bambino un ruolo e che questo avrebbe dovuto essere paritario. Decidemmo che ognuno sarebbe stato chiamato “archeologo” con l’aggiunta della specializzazione. “Archeologo archeometrista”, “archeologo medievista” oppure “preistorico”, “archeologo antropologo”, eccetera. Tuttavia, pensai che non ne avremmo mai trovate abbastanza, di specializzazioni, ma mi smentì. Quelle che la sua vasta esperienza identificò spaziarono dalle usuali partizioni temporali e da esperti di discipline come la geologia o la paleontologia a professionalità che chi non è archeologo, come me, avrebbe forse stentato a individuare: l’entomologo, il paleobotanico, il paleopatologo, il microstratigrafo, il disegnatore, ecc…, sino al fotografo.
Una evidente forzatura, almeno in alcuni casi, associarli alla dizione di archeologo – accettabile nell’attività didattica per l’intento di non gerarchizzare i ruoli interpretati dai bambini – ma perfetta per illuminare sulla quantità di competenze necessarie alla conduzione di uno scavo e all’interpretazione dei suoi risultati. Non si deve sminuirne alcuna. Prendiamo il fotografo: uno potrebbe pensare che serva solo a documentare, un clic in automatico e via andare. Invece sono dei geniali artisti, pieni d’inventiva, che associano alle competenze tecniche. Ne conobbi uno che aveva escogitato una mini-mongolfiera per effettuare riprese zenitali degli scavi; un altro che scatto dopo scatto delle collezioni di statuaria aveva acquisito una capacità creativa sull’uso dell’illuminazione e degli angoli di ripresa in grado di far parlare i marmi. Quando vedevi gli originali rimanevi deluso, e parecchio.
Insomma, l’archeologia, questa disciplina vissuta con atteggiamento duplice dalla società (con lo stolido fascino del mistero e la vertigine del tempo, da un lato, e l’insofferenza quando causa il blocco di un lavoro pubblico – ma la metro si deve far passare sotto i Fori Imperiali!), questa disciplina ci dimostra come l’uomo costruisca realtà complesse dove mettere in pratica la propria vocazione di animale sociale.
E a me, per mestiere, spetterebbe il compito di tutto capire per comunicare!

giovedì 19 maggio 2011

E ancora la spiaggia di Pasolini

E ancora la spiaggia di Pasolini
s’impregna di fuggiaschi
Tra ossi calcinati e legni seccati
perenne
sovrasta il rumore di onde, risacca
e aeroplani incazzati di pioggia
brutto inizio per qualsiasi distacco
Goccia salmastro e kerosene pure
mentre fiacco ogni volo
di uccellacci ali pende
su mondezza rigettata dal mare
Stufo di tanta offesa
mostrando continue file di denti
bianchi ruggenti ma poco azzannanti
rimira
tale vomito suo o forse cacca
Bottiglie e cotton-fioc
disseminati privi di speranza
che qui radice alcuna loro attacchi
soffocano d’invidia tutte le erbe,
arbusti e muschi oramai rinsecchiti
e a sprazzi e macchie fra orli di catrame
rinsaccati entro dune microscopiche
negazioni di scivolo
a venti sconosciuti
persino
al metallo tonante sotto al grigio
Incombente come un destino illuso
l’orizzonte staccando le sue linee
dal fondale le accatasta su chi
erubescente al freddo
vagola pesante e scuro tra fioca
volontà, menti incagliate da ruggine
e in questo strenuo bisogno di vita
non vi scorge poesia
possente alma sebbene
altrove
echeggino altri incanti di Natura
Alti essi ed appagati
non abbisognano d’uomo che scacchi
la piantaccia venefica
degradante ricchezze, povertà,
ogni motivo, tutte le ispirazioni,
qualsivoglia peccato
Nascosto qui con connesso riscatto
invece un seme nobile alla terra
s’attacca
E ancora la spiaggia di Pasolini
s’impregna di fuggiaschi
Lì giaccio

mercoledì 18 maggio 2011

Pater noster

Pater noster, qui es in cœlis, sanctificetur nomen tuum, adveniat regnum tuum, fiat volumptas tua sicut in cœlo et in terra.
Panem nostrum quotidianum da nobis hodie et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo.

Πάτερ ήμν ν τος ορανος γιασθήτω τ νομά σου· λθέτω βασιλεία σου· γενηθήτω τ θέλημά σου, ς ν οραν κα π τς γς·
τν ρτον μν τν πιούσιον δς μν σήμερον· κα φες μν τ φελήματα μν, ς κα μες φίεμεν τος φειλέταις μν· κα μ εσενέγκς μς ες πειρασμόν, λλ ῥῦσαι μς π το πονηρο.

Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male.

Notre Père, qui es au cieux, que ton nom soit sanctifié, que ta volonté soit faite sur la terre comme au ciel.
Donne-nous aujourd’hui notre pain quotidien, pardonne-nous nos offenses comme nous aussi nous pardonnons à ceux qui nous ont offensés, ne nous induis pas en tentation, mais délivre-nous du malin.

Our Father, who art in heaven, hallowed be thy name, thy kingdom come, thy will be done in earth as it is in heaven.
Give us today our daily bread and forgive our debts as we forgive our debtors and lead us not into temptation but deliver us from evil.

Vater unser, der Du bist im Himmel, geheiligt werde Dein Name; zu uns komme Dein Reich;
Dein Wille geschehe, wie im Himmel, also auch auf Erden!
Unser tägliches Brot gib uns heute; und vergib uns unsre Schuld, wie auch wir vergeben unsren Schuldigern; und führe uns nicht in Versuchung, sondern erlöse uns von dem Übel.

Onze Vader die in de hemelin zijt, uw konkrijk kome, uw wil geschide gelijk in de hemel alzo ook op de aarde.
Geefe ons heden ons dagelijks brood en vergeef ons onze schulden gelijk ook wij vergeven onze schuldenaren en leid ons niet in verzoeking maar verlos ons van de boze.

Pai nosso, que estais nos céus, santificado seja o vosso nome, venha a nòs o vosso reino, seja feita a vossa vontade, assim na terra como no céu. O pāo nosso de cada dia nos dai hoje, perdoai-nos as nossas ofensas, assim como nòs perdoamos a quem nos tem ofendido e nāo nos deixeis cair em tentaçāo, mas livrai-nos do mal.

Padre nuestro, que estás en el cielo, santificado sea tu Nombre; venga a nosotros tu reino; hágase tu voluntad en la tierra como en el cielo.
Danos hoy nuestro pan de cada día; perdona nuestras ofensas como también nosotros perdonamos a los que nos ofenden; no nos dejes caer en la tentación, y líbranos del mal.


Pare nostre, que esteu en el cel: sigui santificat el vostre nom. Vingui a nosaltres el vostre regne. Faci's la vostra voluntat, així a la terra com es fa en el cel. 
El nostre pa de cada dia, doneu-nos, Senyor, el dia d'avui. I perdoneu les nostres culpes, així com nosaltres perdonem els nostres deutors. I no permeteu que nosaltres caiguem en la temptació, ans deslliureu-nos de qualsevol mal.

Ojcze nasz, któryś jest w niebie święć się imię Twoje; przyjdź królestwo Twoje; bądź wola Twoja jako w niebie tak i na ziemi.
Chleba naszego powszedniego daj nam dzisiaj; i odpuść nam nasze winy, jako i my odpuszczamy naszym winowajcom; i nie wódź nas na pokuszenie; ale nas zbaw od złego.

Πάτερ ημών ο εν τοις ουρανοίς,αγιασθήτω το όνομά Σου, ελθέτω η Βασιλεία Σου,
γεννηθήτω το θέλημά Σου ως εν ουρανώ και επί της γης.
Τον άρτον ημών τον επιούσιον δος ημίν σήμερον, και άφες ημίν τα οφειλήματα ημών, ως και ημείς αφίεμεν τοις οφειλέταις ημών, και μη εισενέγκης ημάς εις πειρασμόν, αλλά ρύσαι ημάς από του πονηρού.

Tatăl nostru care eşti în ceruri, sfinţească-se numele Tău, vie împărăţia Ta, facă-se voia ta,
precum în cer aşa şi pe pământ.
Pâinea noastră cea de toate zilele, dă-ne-o nouă astăzi şi ne iartă nouă greşelile noastre precum şi noi iertăm greşiţilor noştri şi nu ne duce pe noi în ispită ci ne izbăveşte de cel rău.

Отче наш, сущий на небесах! да святится имя Твое; да приидет Царствие Твое;
да будет воля Твоя и на земле, как на небе.
Хлеб наш насущный дай нам на сей день; и прости нам долги наши, как и мы прощаем должникам нашим; и не введи нас в искушение, но избавь нас от лукавого.

lunedì 16 maggio 2011

Lisbona

Riatterrando a Lisbona, rivedendo i suoi ponti, i suoi tetti, le sue palazzine tenuamente colorate, provai un sentimento di dolcezza. Come di ritorno a casa. Un sapore nella bocca di cose domestiche. Un po’ come quando durante un viaggio sperimenti gusti diversi. Da quelli standard dei pasti a catena alle particolarità degli angoli del mondo. Poi rientri nel tuo quartiere. L’aria ti fa riassaporare le caramelle del droghiere e il cornetto della domenica mattina. Fino alla tua molto personale miscela del caffellatte di casa con i biscotti, sempre quelli.
Erano forse i pastéis de Belém? Era loro la colpa; no, piuttosto il merito?
E perché nella terra di Saramago i miei pensieri conoscevano frasi corte? Quanto avrei voluto potere e sapere litigare con lui. Senza paure di confronto. E non sulla lunghezza delle frasi.
Ma quale Lisbona amo? Non quella della Baixa, troppo compiaciuta delle sue croste, l’Alfama mi sa troppo di trappola finto non-turistica, il Barrio Alto solo in piccoli scorci, Belém è troppo stretta. La prima periferia non sa di nulla, la più recente è inutilmente pastello, la zona di Expositioes sembra un gioco deserto. Quale Lisbona dunque?
La Avenida da Libertade è troppo larga, bei negozi ce ne sono ma chissenefrega, sa di morte. Il Centro Comercial das Amoreiras è niente male opprimente e non un gelso dà ombra alla zona che ne reca il nome. Il Parque Eduardo VII è invero stucchevole. Il monumento ai navigatori, lasciar perdere; e se è questo un po’ il simbolo della città…
Ma è proprio questo il segno dell’amore. Non si ama una persona perché ha un bel sedere. Ci può invogliare, ma non ci suscita un senso di eternità. Non la si ama per gli occhi che ha, ma per quello che ci comunicano. Non per le parole che dice, ma perché le dice a noi e dice quelle.
E Lisbona mi ha detto tante parole. Le porto ora incise nell’animo, più aperto dopo di lei.

venerdì 13 maggio 2011

Zeus e Mnemosine 5

C’è stata e c’è un’arte avente il fine di spiegare, di insegnare qualcosa.
Pensiamo al dichiarato scopo didattico della pittura medievale, che fosse civile o religiosa, come certamente di questa seconda matrice fu per la più parte. Il ‘buono e cattivo governo’ a Siena o le migliaia di agiografie, le migliaia di illustrazioni della Bibbia e dei Vangeli in particolare. I simboli usati, le città che erano presentate, gli abbigliamenti in cui venivano vestiti i personaggi, gli oggetti, gli animali e i paesaggi che accompagnavano le scene; era tutto un giocare sulla memoria, quella dell’esecutore che faceva da specchio a quella di coloro che di quei messaggi iconografici erano i destinatari, cioè il volgo analfabeta, la stragrande maggioranza della popolazione del tempo.
Nicola da Guardiagrele spiega la teologia cristiana, il messaggio salvifico della morte e resurrezione di Cristo, nelle sue splendide croci processionarie in argento. Egli richiama alla sua memoria molte cose, su vari piani. Le innumerevoli Crocifissioni viste, le formelle del Ghiberti conosciute in un viaggio fiorentino, la concezione di Cristo Re e dunque assiso in trono nel Regno dei Cieli. La sua arte sublime si distende nell’illustrare al popolo le promesse escatologiche, con immagini chiare e riconoscibili.[1]
Konrad Witz sposta manifestamente da Tiberiade a Ginevra, cara a lui e ai suoi committenti, il lago della pesca miracolosa raccontata dal Vangelo di Giovanni. Una convenienza pratica per attualizzare il messaggio evangelico, contestualizzandolo nel luogo che la memoria recente permette di riconoscere facilmente, e per mettere in pratica gli insegnamenti della Riforma, appunto avvicinando ai destinatari dei catechismi pittorici i luoghi della predicazione di Gesù.
 
(to be continued)
 


[1] Cfr. S. Guido (a cura di), Nicola da Guardiagrele,Orafo tra Medioevo e Rinascimento. Le opere - I restauri, Catalogo della mostra (Roma, Chieti, L’Aquila, Firenze, 29 ottobre 2008 - data da destinarsi), Tau editrice, Todi 2008.

mercoledì 11 maggio 2011

Gerusalemme parte IV - fine

Davanti all’albergo non c’è nessun tassista. Entro nello Shabbat elevator, l’ascensore dei giorni consacrati dove non devi premere i pulsanti: entri, sali all’ultimo, poi riscendi piano per piano, le porte scorrevoli si aprono e scendi. Non prima di aver dovuto spingere una porta. – Contestai vivamente questo fatto. Se pigiare il bottone è lavoro, spingere una porta metallica non lo è? In tutti gli alberghi ci sono anche gli ascensori non shabbat; c’erano anche in quello, però arrivavano solo al 4° piano. Noi eravamo al 7°. Noi che ebrei non siamo. – Lo è invece il rabbino che ci incontro dentro. Lo conosco già. Lo detesto. Con il tuo cappello nero e la tua barba imprecisa, non puoi permetterti di fare un pesante complimento a una donna davanti al suo uomo. E pensare di essere spiritoso. Non ti ho trovato spiritoso, rabbino. E ora te lo dimostro. Nonostante la febbre. Pure se sei di Praga. Pure se ci avevi invitato ad ascoltare i canti preliminari al banchetto della sera di Capodanno. Tanto lo so che se non ci fossi stato io saresti stato più contento, invece c’ero. E se non c’ero era lo stesso.
Perché uno, finché può, le donne se le sceglie.
Rabbino di Praga pieno di sé. Forse era già ubriaco, la sera prima. Gli arabi sono i più sfigati. Non solo si perdono anche loro la salsiccia di Monte San Biagio o genericamente il culatello, il jamon serrano o il pâté de tête de porc, ma nemmeno possono o potrebbero gioire d’un Brunello di Montalcino, di una stout irlandese o d’una šljivovica artigianale. Tutte cose, queste seconde, che il barbuto rabbino doveva conoscere adeguatamente ma che non giustificavano la sua tronfiezza e la sua volgarità. Scendi, idiota! E non in senso dostoijevskiano.

Scese.
Mi chiesi quante Gerusalemme avesse visto. Pensai: meno di me. Lui vide di certo la Gerusalemme vecchia e la nuova: ovvero l’antica città di impianto arabo circondata dalle mura e la nuova, ariosa estensione ebraica, due città invero poco comunicanti. Sicuramente sapeva e forse aveva cercato di comprendere anche quella virtuale, cioè quella realtà di sentimenti che è la Gerusalemme dei cristiani, trascurata dagli uffici del turismo israeliani ma prepotentemente viva. Emozionante: a noi aveva addirittura commosso. È probabile che il volgare rabbino di Praga non avesse affatto voluto considerare la città araba, nella cui parte più drammatica invece io mi ero spinto.

La città dell’unione è stata ridotta a città delle divisioni. È un luogo che divide, oggi, Gerusalemme. La basilica del Santo Sepolcro; anch’essa divisa. E nel nome e nel luogo della morte e resurrezione del Figlio dell’Uomo i fratelli cristiani litigano e si percuotono. Un emblema alieno. Icona delle tante Gerusalemme dentro una sola.

E ne mancava a tutti una. Un’altra. Non più visibile. Non araba, bensì degli arabi. Palestinese. Occultata. Lo capimmo smarrendo la strada per Gerico.

Improvvisamente ci si parò davanti. Zitto.
Ci annichilì con la sua assenza di sentimenti. Sporco.
Rimanemmo disorientati per il dolore di quel lungo muro. Grigio.

martedì 10 maggio 2011

In memoria

Morte
 è il sorcio schiacciato per strada
che il corvo becca saltando impaziente,
 è la smorfia stolta del ragazzo
che nemmeno può bere il suo sangue
e a cui un casco alzato non protesse
il parietale dallo sfondamento,
 il pigmento ocra sul parabrezza
polverosa e collosa unica traccia
della farfalla distratta dal mare
risalente le valli a solatìo,

morte
 è cercare l’immagine macabra
e passare alla banalità prossima
di sensazioni ovvie pronte-da-smettere,

morte
 è pretendere che anche la morte
sia causa di letteratura scema





                                            in memoria di Wouter Weylandt (27 Settembre 1984 – 9 Maggio 2011)



V. anche
http://enricoproietti.blogspot.com/2011/05/wouter-weylandt.html?spref=fb




.

lunedì 9 maggio 2011

Wouter Weylandt

Lo hanno portato a Lavagna. Il posto più adatto a un cadavere nel Levante. È morto tra i monti lì dietro. Si è voltato, quando si è girato la discesa ha fermato la sua corsa.
Quando i familiari, i genitori, la moglie, verranno in Liguria in questo sole del maggio di Riviera i colori del mare e delle case e dei fiori li accompagneranno fino a poco prima dell’ospedale. Ne saranno minimamente consolati o “crepare di maggio” sarà anche per loro ancor più insostenibile? A questa gente di Gand sarà negata la gioia della luce del Mediterraneo.
“Eri unico”, hanno scritto sul suo sito, sopra una foto che lo ritrae con un sorriso seducente, ragazzone secco e lungo dalla faccia simpatica. La televisione lo ha mostrato un attimo, nell’ansia della cronaca, col volto tumefatto; poi la regia ha capito, non era una caduta qualsiasi, e ha staccato. Era lì, steso sull’asfalto, inanimato, gli tagliavano il sottogola del casco e la maglia. I tentativi di rianimazione non si sono visti. Tutti hanno sperato che ce la facesse, ciascuno ha intuito che la disperazione si era già impadronita della scena.
Dopo quaranta minuti di debole illusione, la resa. Era morto subito, per quel lunghissimo tempo hanno pompato artificialmente sangue nelle vene di un cadavere.
Suo figlio non lo conoscerà mai. La moglie, se ce la farà, lo farà nascere orfano.
Morire per uno sport bello, non estremo, praticato più o meno da tutti ai vari livelli, a ventisei anni. Fa male solo pensarlo. Molti hanno pianto per lui. Che il suo sorriso possa rallegrare il Paradiso.

http://www.wouterweylandt.be/

domenica 8 maggio 2011

Verde Lega Verde Islam

    Ma la cosa più strana è che la Lega ha lo stesso colore dell’Islam!
    La bandiera libica di Gheddafi è verdissima come quella dei paurosi seguaci di Bossi.
    Forse è un chiaro segno che l’Italia è più vicina al Medio Oriente che all’Europa centrale e ancor meno settentrionale. D’altronde quel cambiamento del bleu in verde nella nostra bandiera avrà un significato: magari i popoli che vivono l’aridità agognano erba verde e grassa di pioggia. O forse è piuttosto qualcosa di più subliminale, ma insomma…
    Non è però questa comunanza di vessillo che ha spinto qualche furbissimo ignorante a schierarsi contro i bombardamenti in Libia. D’altronde, da stupidi devono aver percepito che anche le bombe sono poco intelligenti. Ciò li ha resi, in verità, meno idioti di chi crede, o finge di credere e però sbandiera, che esse lo siano davvero. Oddio, ancor più in verità, non s’è capito bene cosa vogliano, l’importante è alzare la voce e sbraitare. A prescindere. Peccato che si definiscano padani, anche nei bar delle periferie del centro e del sud, intendo quelle periferie del degrado morale e ambientale, della disaffezione allo studio, dell’analfabetismo di ritorno, del malaffare, del crimine spiccio e organizzato; ebbene, anche in quelle periferie raccoglierebbero caterve di voti.

mercoledì 4 maggio 2011

Zeus e Mnemosine 4

Per non parlare di quanto voglia educarci il Velazquez de “Las meninas”. Se il Van Eyck del “Ritratto dei coniugi Arnolfini” nel piccolo specchio in fondo alla stanza ci aveva reso tutti testimoni del momento, forse addirittura tutti artisti esecutori dell’opera, mostrandoci appunto da testimoni o pittori, comunque immedesimati in qualcuno presente alla scena, Velazquez ci battezza inequivocabilmente re: chiunque guardi il dipinto impersonifica, è, il re (o la regina), specchiati nella parete di fondo. Così ci educa intensamente, facendoci ricordare la grandezza che alberga in ciascuno di noi e che, avendola portata a livello cosciente, attraverso l’esperienza estetica ci eleva a re. E poco importa se è il sommo pittore a indicarsi lui quale king maker.
Klimt offre una nuova lingua per esprimersi a colori e materie che provengono dalle lunghe esperienze artistiche dell’oriente europeo; contemporaneamente, dà a noi la possibilità di parlarla, riappropriandoci in chiave contemporanea di quelle reminescenze.
Anche quando il ricordo apparirebbe negato in termini, invece riaffiora ed è presente. Impressionismo: pittura en plein air, osservazione diretta. Ma i colori sull’acqua ad Argenteuil non sono quelli che Monet ha visto (creduto d’aver visto) ma quelli che rielabora. E anche se sembra una memoria corta, in realtà vi si sovrappongono memorie remote che lo fanno optare per “quella” scelta di colore. La pennellata rossa è il ricordo del calore del sole e il ricordo della sua associazione a un colore “caldo” che egli individua all’interno dell’impasto cromatico sulla sua retina. Dunque nel suo quadro ci sono percezione e cultura, e tramite le sue pennellate singole ci educa, a sua volta, alla coscienza del nostro percepire e del nostro bagaglio culturale.
Questa condizione in cui l’arte ci svela cose di noi stessi apre una strada maieutica alla rivelazione e alla conoscenza. Da questo che è praticamente un momento di agnizione inizia un processo formativo che saprà volgersi al mondo circostante. Di nuovo l’arte e il suo fattore, l’artista, potranno intervenire esercitando una funzione educativa specifica, mirata o no, intenzionale o meno. Certamente questa è una sede anche per invocare una simile intenzionalità.
La visione di un’opera d’arte rivelatrice costituisce una sorta di “incidente critico”, cioè l’interruzione o quanto meno la messa in crisi di una routine all’interno di un sistema percettivo della realtà e comporta l’avvio di un’analisi riflessiva dalla quale scaturisce la richiesta di maggiori informazioni. Sono evidenti gli elementi che configurano tutto ciò come l’inizio di un processo educativo.
    L’artista-didatta può dunque deliberatamente presentare proposte volte all’educazione al patrimonio culturale.

lunedì 2 maggio 2011

Gerusalemme parte III

Torno indietro.

Ma la febbre rimane.
Ora sono anche pieno di adrenalina. O di cosa, chissà! Per fortuna mio padre a quattordici anni mi insegnò a guidare in retromarcia, erano occasioni in cui andava in retromarcia anche il tempo. Ma insomma, ridiscendo cauto la stradina, trovo uno spiazzetto dove nessuno potesse rivendicare l’intrusione in proprietà privata, mi giro e senza strappi vado via. Ma dove? Che sia stata una improbabile salumeria o no, mi viene in mente il cristiano con gli occhiali quadrati. Con lui ci eravamo capiti, vorrà dire che accetteremo la sua guida. Per non esserci fatti vedere, la febbre è pure un’ottima scusa. Nemmeno lo sembra. Devo tornare su e andare alla città vecchia. Lo faccio. Risalgo dalla fenditura della storia verso il sole pieno delle alte colline giudee.
Devo entrare da Jaffa Gate, la Porta di Giaffa, la stessa che abbiamo fatto camminando tranquilli per dieci minuti dall’albergo e subito dopo la quale, buttandosi nei calmi vicoli a sinistra, lui starà come l’altra volta seduto in strada a fumare una sigaretta, la camicia aperta sulla canotta, la croce al collo bene in mostra, a parlare con suoi amici. Dove posteggerò? La circonvallazione alle mura non è esattamente un posto comodo per cercare parcheggio, ma ho fretta e mi sento anche un po’ debole, non ho voglia di camminare a lungo. Troppo preoccupato, mi ficco nel tunnel che passa oltre la porta. Per fortuna dura poco, appena riemergo mi butto a destra e ricorro ancora alla retromarcia, ficcandomi di culo in un minuscolo parcheggio. C’è persino un posto. Jaffa Gate è a pochi passi, tutto sommato. Da pedone, passo ovviamente proprio per l’antica porta e non dal buco automobilistico praticato accanto. Dentro, a una parete rivedo il contenitore metallico, un po’ arrugginito, della mezuzah, la pergamena arrotolata da sinistra a destra che reca scritta a mano dagli scribi la doppia citazione della Torah “E iscriverai queste parole sopra gli stipiti della tua casa e sulle tue Porte”. Di chi saranno queste Porte arabe?
Appena varco questo mistero, all’angolo della prima a sinistra, una inequivocabile freccia invita a superare il Money Exchange ed entrare nella stradina: Jaffa Gate Pharmacy - open daily 9am-8pm. Con lo sguardo speranzoso e disilluso insieme alliscio lo spigolo opposto, più vicino a me, per sbirciare il prima possibile se le serrande sono alzate. Sono quegli attimi dove impari a conoscere il tuo punto di rottura. Non conta la banalità della circostanza. Capisci se sei un bimbo che vorrebbe la mamma a proteggerlo oppure un duro che non si arrende.
È aperta.
Entro, c’è un dottore chiaramente palestinese che parla un inglese universitario. Attendo pochi istanti la cliente prima di me, poi lui mi da le medicine, anche consigliandomi. Esco, in quattro minuti ritorno alla macchina, in altri tre arrivo all’hotel. Sette minuti in tutto. Il numero della perfezione. Forse l’internet ebreo è calibrato su un passo più veloce. Ne deve aver calcolati sei, il numero dell’imperfezione. È probabilmente per questo che non gli risultava la Jaffa Gate Pharmacy. Una farmacia araba. A due passi dall’albergo. Avevo girato tutta la mattina e rischiato una brutta avventura. Araba o ebrea?

venerdì 29 aprile 2011

Ritto olivo

Fu nel dolore suo più estremo che imparai ad amarla di più.
Fragile, insicura maschera graziosa, quale tutti la vedevano, rivelò a me nella tragedia la sua bellezza profonda. Senza trucchi sociali.
Credo che la meritassi, tra i pochi ad averla intravista sapendo già precipitare dentro di lei.
Felicità e disperazione possono scorgersi nel cambiamento, nell’inversione dall’uno all’altro senso del procedere. Sperimentare due volte il girare del destino nel solo istante di un battito impazzito è crudeltà che rimescola la feccia del pozzo del pianto. Ottenebra lo sguardo, oscura la mente. Lei sempre apparsa in balia delle correnti, mentre le si stracciavano i legamenti del cuore e delle viscere, si fece timone. Mantenne salda la rotta tra le lacrime burrascose. Fu forte, non creduta casa sulla roccia.
Non so ancora se tanta qualità le fosse nota: probabilmente no. Neppure quanti l’abbiano capito so, né importa. Ancor meno riesco a comprendere se le piaccia tirarla fuori con continuità, la fermezza che tiene dentro, quasi che offrirsi fuscello lo ritenga difesa contro il mutato stato dell’essere, e voglia così invece rivivere il tempo dell’abbraccio costante: non accorgendosi che si obbliga a precipitare ogni volta.
O invece ne percepisce appieno il rischio giallo, ma lascia farlo nella donazione che ne è altro pilastro, per concedere nobile scopo all’esisterle accanto.
Ascoltarne i sogni ai primi rossi del giorno sperando che rivivere e risoffrire serva davvero a giungere al distacco; sentirne gli occhi piegarsi verso il basso ad ogni richiamo invidiato; toccare l’infreddarsi del respiro davanti a scene di film che riaccendono le stesse luci; augurarle un perenne fondale di petali di glicine e gelsomino profumati di dolcezza; è tutto ciò a togliere le macchie al cavaliere che intende sostenerle la vita.
E posso scagliarmi così contro qualsiasi avversario che, lui e non io, la scambi per una Dulcinea di avvenenza inventata, per difendere e godere, io e non altri, della bontà bella della mia Aldonza, fedele servitore del vero fascino.
In lei, in quegli occhi che seppero rinviare il fiume, in quella pelle che nessun dolore ha saputo arricciare, in quel cuore che ancora più convinto sa battere per gli altri, irresistibile.
Irresistibile fu svelare flesso giunco per ritto olivo, dura essenza di pace. E vederlo da vicino.

giovedì 28 aprile 2011

Zeus e Mnemosine 3

La Quinta del Sordo di Goya non è forse una “caverna di Platone” da dentro la quale egli impara a dare forma e sostanza alle ombre proiettate all’interno? Nel mito platonico, non sono ombre di uomini, ma di statue. Ora sono ombre appartenenti a dimensioni non consce che il grande saragozzano vede e fissa sulle pareti della Quinta, cioè simulacri di aspetti della natura umana nascosti e coperti dal sonno della ragione. E quando esce, se ne ricorda: in quei ritratti ufficiali che esegue, non ci lascia scorgere quelle stesse ombre – terribili, grottesche, appartenenti a una realtà coperta – sui volti insani di una dinastia cadente che priva di ragione naturale si concede alla mostruosità? Noi impariamo molto su noi stessi ammirando quella produzione pittorica. Il poeta francese Yves Bonnefoy, riscontrando difficoltà a comprendere la pittura di Goya attraverso quella della sua epoca, propone una via nuova, empatica tra opera d’arte e fruitore. Per comprendere gli abissi di Goya è necessario prestare attenzione a quello che proviamo noi stessi quando osserviamo le sue opere[1].
Canova ci ha risvegliato tutto il senso di paura e di smarrimento di fronte al buio e all’ignoto, metafore nemmeno troppo astratte della morte, semplicemente ricavando, nelle sue tombe monumentali, degli anditi alle camere sepolcrali che si presentano come negazione della luce, tanto riverberata sui marmi bianchi quanto assente in quelle misteriose porte aperte su un’oscurità che è tanto più assoluta quanto più è confrontata con la relatività delle figure umane, da un lato, e da un altro con il modello di forma assoluta che è la piramide, come nel Monumento a Maria Cristina d’Austria di Vienna[2].
Klee ha invece dato spazio al ricordo delle pulsioni dell’infanzia e dell’adolescenza, vive nell’adulto in stati di coscienza che ha indagato e indaga la psicanalisi. “Ma quella della prima infanzia non è affatto una condizione di primitività assoluta, di non esperienza; su ogni vita che nasce molte vite vissute hanno lasciato l’impronta della loro esperienza.”[3] Non ripetendo le cose visibili ma rendendo visibili le cose, cioè la realtà, attraverso il connotato del gioco, egli ha negato proprio la realtà immanente. Infatti, per Freud il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale. Klee pretende di educarci liberando la fantasia[4].



[1] Y. Bonnefoy, Goya, le pitture nere, trad. it., Donzelli, Roma 2006.
[2] Cfr. in proposito G. C. Argan, Studi e note. Dal Bramante a Canova, Bulzoni, Roma 1970.
[3] G. C. Argan, L’arte moderna, RCS Sansoni Editore, Firenze 1990, p. 247.
[4] Anche l’artista svizzero ha lasciato in forma di saggio le proprie convinzioni: P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, trad. it., Feltrinelli, Milano 1959.

lunedì 25 aprile 2011

LM

L’ho rincontrato in una sera di fine estate in una casa da cui si sentiva il rumore del mare. Gli odori di resina mescolati con quelli del braciere. Poi è stato partecipe dei silenzi tra pianti e risate.
E poi più pianti ci sono stati. Veri, trattenuti o nascosti. Nascosti a lui, soprattutto. Forse più per non addolorarne il cuore buono che per non fargli sapere. Forse ha finto di non sapere perché questo suo cuore buono non avrebbe retto le sue donne costrette a condividere il dolore. Forse ha preferito che esse si mascherassero di speranza finché è stato possibile.
Ed esse hanno scelto di vivere tutte le ore con lui. Sono lunghe e sono brevi, le ore. Non passano mai, quando aspetti un responso o devi riempirle di normalità costretta; e ti sfuggono via come risacca quando devi trovare una soluzione o pretendi di colmarle di tutto il tempo che avresti desiderato. E, maledette!, non si allargano a contenerne di più.
Così, poche sono state e meno sono sembrate le ore che lui e le sue donne hanno ancora trascorso insieme da quella sera di mare un po’ grosso. Un autunno inoppugnabile, definitivo, rapido. Poi, è stata di certo la sua bontà a riscaldare quei primi giorni d’inverno. Ha voluto che le chiome contrastanti delle sue figlie fossero libere di infilarsi in un vento non freddo per intonare un canto a due voci, il canto di una vita giusta. Un uomo giusto, nel senso del Vangelo. Forse ha potuto decidere questo congedo veloce invece di un lento, insostenibile, addio. Forse ha preferito così.
Non lo fa rimpiangere di meno. Anzi.

sabato 23 aprile 2011

Gerusalemme parte II

Se si sta bene. Se non è Rosh haShanà[1] e si ha la febbre. Una febbre stupida, che una coperta troppo corta, efficace metafora delle proprie ambizioni e contraddizioni, ha fatto venire in albergo. Complice lo spiffero sotto la porta.
Allora si scende e si chiede in reception se hanno un’aspirina. E non ce l’hanno. Possono vedere su internet se per ipotesi ci fosse una farmacia aperta, però è Capodanno e in città è tutto chiuso. Proviamo. L’addetto cerca, cerca, poi telefona ma nessuno risponde. Ritelefona e nessuno risponde. Ancora, e ancora niente. Ripete che è tutto chiuso, e pare dispiacersi della rabbia che provoca. Poi le sopracciglia si ridistendono un secondo appena. Al millesimo squillo qualcuno ha risposto. Dice alcune parole, poi passa il telefono: ci si spieghi direttamente col farmacista. Per fortuna quello parla un inglese non perfetto ma comprensibile. Serve un po’ di paracetamolo e un sedativo della tosse, eventualmente un mucolitico. Ovviamente ce l’ha. Bene, ecco indietro il telefono al receptionist, che parla ancora un poco sottovoce ma assumendo un’espressione di nuovo accigliata, anche vagamente sgomenta. Infine, scrive. Conferma con un cenno e un’occhiata: l’indirizzo. Poi lo passa. È scritto in ebraico e lui si stringe nelle spalle: non sa dove sia, da qualche parte abbastanza fuori città, ma non la conosce; dovrebbe stare vicino a un posto che nomina e che forse al momento venne anche compreso, ma non ha idea di come ci si arrivi. Conviene prendere un taxi e chiedere al conducente, suggerisce.
Fuori dell’hotel i tassisti sono molto più scarsi dei giorni feriali: solo un paio, probabilmente in attesa di qualcuno dei rabbini che la sera prima festeggiarono nel ristorante dell’albergo. Leggono il foglietto ma scuotono la testa, si consultano tra loro e lo ridanno indietro dicendo, o piuttosto biascicando frasi incomprensibili. Non conoscono quell’indirizzo? Lo reputano non conveniente? Forse sono arabi, visto che lavorano.

Al diavolo! Tutto questo sta succedendo a me, e io ora ho un’idea. O meglio: non ho solo un’idea, ho anche una macchina. Ora la prendo e vado in cerca di una farmacia. Non c’è solo la macchina nella mia idea: c’è anche il ragionamento che Rosh haShanà è una festa ebraica e che dunque gli arabi dovrebbero stare al lavoro. E ci sarà pure una farmacia araba! Ho visto proprio il giorno prima come andare nella città araba, e così lo faccio. Mi incammino con ostentata sicurezza nelle strade dal sapore californiano e scendo nella spaccatura della storia lasciandomi le mura medievali alle spalle. Il paesaggio cambia, i volti pure. Soprattutto gli sguardi.
Pure la conoscenza e l’accento dell’inglese cambiano: in peggio.
Innumerevoli tentativi, quelli dicono cose, indicano, ma seguendo o ritenendo di seguire le indicazioni fornite non arrivo da nessuna parte, non scorgo alcuna farmacia. Tipi panciuti si consultano con tipi ossuti, poi i panciuti mi sorridono e con determinazione mi spiegano di proseguire alcune centinaia di metri e domandare ancora perché la farmacia è là ma devo domandare. Forse sarà su una stradina interna, penso io e mi fido. La cosa più strana è che ora ricordo che l’indicazione definitiva me la diedero in una salumeria. L’ovvia impossibilità della circostanza rende l’idea della febbre che montava. Oppure no, chissà, forse in quel pre-delirio di Capodanno ebraico per me potevano essere arabi cristiani. Ne avevamo conosciuti già. Uno in particolare, un signore attempato dagli occhiali quadrati, lo avevamo conosciuto spiando la vita appena fuori dai percorsi dei gruppi di pellegrini ed era stata una piacevole conversazione; poi ci aveva condotto a un ristorante cristiano prossimo alle sede del Patriarcato cattolico; infine si era offerto di farci da guida per l’indomani. Avevamo disatteso l’appuntamento per perderci da soli e per la febbre sopravvenuta. Cristiano era pure il giovane pingue che ci aveva venduto una memory card a prezzi inenarrabili ma anche spiegato molte cose su come regolarsi da quelle parti. Insomma: arabi con il crocefisso sotto al Golgota ce n’erano. Ma no, non credo che entrai in alcuna salumeria.

Fatto sta che ad un certo punto del mio cercare un signore parla un inglese migliore e mi dice con fare convincente:
“Vedi là dove sta uscendo quell’automobile? Entri lì, sali per la strada a sinistra e dopo 500 metri sulla destra c’è la farmacia.”
Preciso, sicuro, affidabile: vado. Forse mi ricordo anche di ringraziarlo.
Non penso a sparargli. Nemmeno con un colpo finto di una delle mille armi in vendita su ogni bancarella araba d’Israele, copie perfette di quelle che da qualche parte dovevano pure essere in commercio. In mano a tutti i bambini e gli adolescenti arabi d’Israele sembravano armi vere, usate con padronanza e verosimiglianza di contesto. Dovrei?
Seguo le indicazioni, impossibile errare. Imbocco dov’era uscita quella macchina, prendo a sinistra, inizio a salire. Il paesaggio non è né come presso l’albergo né come lungo la Via Crucis. Sembra vagamente un film neorealista nell’Italia del sud dell’immediato dopoguerra rovinata dalla risalita americana. Questa strada in salita, stretta, sfasciata, con un’arlecchinata di asfalti e cementi e buche mi sembra di averla vissuta in televisione, una di quelle pellicole con i ragazzini arruffati, i muli, le case bucate, i visi cotti dal sole e dalla povertà. Pellicole in bianco e nero, anzi con quella dominante giallognola dell’invecchiamento. Qui la stessa dominante la dà la voce del deserto.
È ripida la strada, e s’inerpica tra case lamierate dalle finestre piccole, quando ci sono; senza ordine, medioevo mediorientale dei nostri giorni. Nostri! I giorni palestinesi non ci appartengono tanto quanto ne abbiamo notizia a ogni telegiornale. All’inizio questo selvaggio paesaggio urbano mantiene una qualche ariosità, che si rarefa salendo oltre. Già: oltre. Oltre i 500 metri predetti dal gentile signore che parlava un inglese migliore. Avrà calcolato male. Al doppio della distanza, sono perduto.
Se si riesce a vivere un dopo, spesso ci si interroga sull’imprevedibilità degli eventi, sugli attimi che cambiano la vita, su quanto improvviso sia il fato. Non fu il mio caso.
Incosciente di aver bisogno di coscienza, ebbi il mio dopo. Tuttavia nulla di quell’avventura fu istantaneo. Avrei avuto modo di accorgermi dei gironi dove stavo gradualmente salendo. Capovolgimento d’immagine e di mondi, in una terra dai dolori che nulla insegnano. Invece andai. La febbre montante? L’idiozia permanente?

Insomma, salgo. Con la mia macchina della Hertz porto il cuore un po’ più in là di quanto avrei pensato prima di stare in questo regno di bilico. Giudea benedetta e maledetta. Non i prati, le dolci colline della Galilea, la terra dove forse la primavera è più verde; calcare fino al Sion, poi la sabbia. Ottimo posto per morire. Salgo credendo ancora di trovare. E trovo, già! La strada è ora davvero stretta, non dà possibilità di manovra per voltarsi e ridiscendere. Voglio fermarmi e cedere, però decido o mi lascio decidere a percorrere quaranta metri ancora. Quanti bastano perché all’interno dei vetri, nell’aria climatizzata di una macchina ebrea, entri la disperazione di un nugolo di bambini palestinesi, appena sedata dalla voglia di gioco. Una trentina di piccoli fedayn apparsi dal nulla circondano l’automobile brandendo pistole e kalashnikov. Il mio arrivo è perfetto per la loro simulazione, è una variabile imprevista che farà rifulgere le tecniche di guerriglia dei più bravi. Sono perfetti. Sembra un film, uno di quelli fatti bene. Solo l’età dei protagonisti è differente. Spero non quelle armi e che siano invece finte entrambe. Ma sì, sono quelle delle bancarelle. Mi auguro. Fatto è che ho due tipetti sui 9-10 anni attaccati alla gialla targa israeliana, cioè ebrea, quattro-cinque tra gli 8 e i 12 per ciascun lato della vettura, altri mille, diecimila, tutto un esercito irregolare mi turbina intorno. Ho paura. Spengo l’aria condizionata. Ufficialmente tutti mi ignorano: quelli appiccicati all’auto, quelli che impazzano in giro, quelli con le armi vere dentro le case. Ma capisco che una sola partenza sbagliata in salita può fregarmi. Non aspettano altro. Se ne tocco uno, non so se ne esco.
Uno dei più grandi sta ritto un paio di metri davanti. Dev’essere un capo. Di quelli che stanno vincendo. Ero bravino anch’io al gioco della guerra; per come può esserlo un vitaminizzato figlio del boom economico, ma riesco a capire l’andamento della battaglia. E chi comanda.
Avrà dodici anni. I capelli nerissimi e morbidi nonostante l’ambiente. Indossa una maglietta dello stesso colore della pelle. Guarda i movimenti dei suoi verso la mia sinistra ma contemporaneamente sorveglia i miei. Decido che deve vedermi. L’unico modo di uscirne senza danni. So di non dover aprire la portiera, né agitarmi. Se è già un animale, sentirà i miei occhi sui suoi. Mi faccio un po’ in avanti dallo schienale, così da attenuare, per lui, i riflessi del parabrezza. Lo guardo, intensamente. È già un animale.
Ha occhi neri e induriti dalla vita. A dodici anni. Non è un cliché. Le circostanze ti chiamano a giochi che non sempre decidi (io non decidevo di fare il regista). Stavolta il gioco che si è presentato è: decidere la sorte di uno straniero. Lo svolge bene. La durezza e la fierezza del suo sguardo sono notevoli, quasi lo invidio. Non so che intenda comunicargli e tanto meno cosa riceve lui. Apprezzo la palese, quasi ostentata capacità di analizzare ed elaborare a velocità elevatissima. Non mi fa né cenni né espressioni. Solo a un certo punto si volta e grida un ordine ai suoi, ma anche quello ben chiaramente non relativo a me o alla mia situazione. Riprende il gioco precedente. Era quest’altro un po’ troppo rischioso, troppo prematuro? Nel giro di un ritorno della mia schiena a contatto della poltrona il nugolo è scomparso verso il basso.


[1] “Tre libri sono aperti davanti a D-o nel giorno di Rosh haShanà: uno per i giusti (Tzaddìkim) completi, uno per i malvagi (Reshaìm) completi e uno per quelli che stanno a metà strada, che non sono, cioè, né totalmente giusti, né totalmente malvagi (Benonìm). I giusti vengono iscritti immediatamente nel libro della vita, mentre i malvagi vengono iscritti immediatamente nel libro della morte. Per coloro, invece, che sono Benonim D-o attende a dare il giudizio fino al giorno di Yom Kippùr e se avranno fatto teshuvà (penitenza) nei giorni che vanno da Rosh haShanà a Yom Kippùr, allora verranno iscritti nel libro della vita; altrimenti verranno iscritti nel libro della morte” (http://www.nostreradici.it/Rosh-haShana.htm#teshuva#teshuva).