giovedì 19 gennaio 2017

PERSI VERSI





ho smarrito versi
nei rivoli della notte,
nel clacson villano
che mi richiamava al verde,
nel caldo di docce
terminate a malincuore,
poi a poco a poco
nella carenza di penne
e d’ogni tecnologia
o nel surplus d’onde
in cui travisavo il codice
atto alla memoria,
nel pozzo ingannatore
della pigrizia,
quando ero ignobile uomo
tradendo me stesso
li ho persi per sempre
negli occhi tuoi veri

lunedì 16 gennaio 2017

Alessandro Magno Baricco

L'altra sera in TV ho visto Alessandro Baricco che in un teatro, credo di Mantova, parlava al pubblico del Magno suo omonimo. Seduto dietro una mega-cattedra, ne inquadrava l'epopea come uno story telling, anzi, come successivi story telling proposti al mondo fino a quando non ha saputo più raccontarne uno nuovo ai suoi ufficiali. Ciò avveniva di fronte al fiume Indo. Lì la milizia macedone decise di non seguire il suo capo, anzi il suo dio, ormai ammorbiditosi, agli occhi dei rudi soldati balcanici, negli usi persiani.
Non c'è dubbio, Baricco rende. Lo aiutano l'espressione facciale da putto furbo e l'utilizzo, immagino studiato, di messaggi allusivi: a non si sa cosa, ma restituiscono l'idea di un pozzo di sapere che ci risparmia per pietà. Se poi l'abbia (probabile) o meno, non è rilevante. Con quella bocca a bocciolo, sembra assaporare quello che narra, e questo certamente piace.
Insomma, fermo sull'Indo insieme all'omonimo, propone una cosa interessante. Il tragitto del viaggio del Magno in Asia. Dapprima lo traccia su una carta fisico-politica di oggi ed è interessante constatare insieme al piemontese quanti Paesi il macedone abbia attraversato in lungo e largo, avanti e indietro. E qui, di fronte alla rimanente vastità dell'Asia, si chiede perché davvero, al di là del rifiuto dell'esercito (che comunque non è roba da poco), non abbia continuato. E allora compie un'operazione in sé corretta: ovvero, rapporta il disegno alessandrino alle conoscenze, al pensiero, alla concezione del mondo del tempo. Ne deriva anche una teoria per la quale per rapportarsi davvero all' "altro" occorre "entrare" nella sua "mappa". Dunque tira fuori una carta geografica "antica" e qui vi traccia di nuovo l'itinerario e dimostra che Alessandro Magno si fermò all'Indo perché lì terminava la Terra rappresentata e il suo scopo - il suo story telling! - era sempre stato quello di arrivare alla fine del Mondo. Arrivato, aveva terminato lo story telling.
Ho da obiettare.
La carta che presenta, purtroppo l'ho vista male. Ricordava molto l'ecumene di Erodoto: di sicuro, le terre emerse erano circondate completamente dal gran fiume Oceano. Ma Erodoto, un secolo prima del Macedone, aveva già abbandonato l'idea di queste acque continue intorno al mondo. Probabilmente aveva accettato anche che il pianeta fosse sferico, ma per comodità lo continuò a rappresentare piatto. Però la sua carta, dalla parte dell'Asia, si lascia a una indefinita sfumatura: come a dire che il mondo continua, solo che non lo conosciamo ancora.
Allora quale migliore occasione per un geniale megalomane cresciuto sotto gli insegnamenti di Aristotele? Affrontare la conoscenza, lanciarsi alla scoperta dell'ignoto!
E poi, per quanto largo sarà l'Indo, si vedrà pure che di là il mondo continua. Anzi, anche Baricco riferisce che qualcuno indicò in pochi mesi il restante viaggio da compiere.
La ricostruzione non regge.
Insomma, sarà che ho studiato storia, ma a me queste "botte" da fico non piacciono. Anche la storia dello story telling mi è sembrata più autocelebrativa che sensata. Avrò senz'altro torto io.
Certo, Baricco è un fico. Ne è tanto convinto che ha convinto tutti!
Oh, in quel che ho visto, di Pascoli nessuna traccia. Eppure in "Giungemmo, è il fine" già aveva saputo riassumere tutto. (Cfr. "Alexandros")

venerdì 13 gennaio 2017




Sulla portaerei della Magliana
gli addetti in giubbotto arancione
fanno segnali per guidare al peccato,
mentre ai supermarket della carne
sacerdotesse dai paramenti kitsch officiano
i riti dell’autodistruzione frustrata;
non c’è nessun albero per far pisciare i cani
e gli umani lo fanno tra artigli di latta
nelle oasi della cupidigia ai margini del Raccordo,
dove tunnel immobili aspettano
che gli si asciughino le ferite,
e non un fazzoletto giocato all’incrocio
o una fontana dal naso rifatto
raccolgono le lacrime nere della Tangenziale.
Ogni curva è vizio.
I ventri di balena degli ospedali
pullulano di vite al kerosene
che fuori si specchiano nelle alcove di morte
tra le scenografie al neon della Tiburtina,
della Prenestina, masturbazioni della speranza
sopraffatta da desideri senza fondo;
a Ponte Mammolo, a Piramide, a Lepanto
e davanti ad ogni porto dell’ade
profughi dell’anima sbarcano
da sudici traghetti intertemporali;
ai Prati Fiscali bigi il mangianastri
inghiotte storie dimenticate e finti amori
intanto che il riverbero delle bisce
divoranti cornetti accieca lo sguardo
di chi vede cuori.
Sopra il tendone ai Colli Portuensi nel circo
saltimbanchi dell’inganno e giocolieri
dell’egoismo scivolano dall’equilibrio
tra il versante del terrore e quello dell’odio;
li inghiotte il cimitero delle ville perdute,
allo stesso tempo che in tutti i palchi claudicanti
le botole assorbono il sangue grigio
dei nobili folli diseredati dall’amore,
e squali giganti nuotano nella melma
sorvegliando i confini della ragione
interrotta i cui brandelli laceri
circondano cento teste di polpi
che con i loro tentacoli sorreggono
il policentrico castello antico.
C’è chi ancora guarda.
Il vuoto pneumatico riempito di merda
colma molti cinghiali a Ponte Milvio,
trofei di se stessi senza porte alla magia,
non lasciando pascolo ai mufloni di Labaro
se non i suoi falsi resti raccontati
dall’opulenta valle per soggiogare
chi erba fetida cerca tra alte mondezze;
e nel Cocito dell’Eur sono confitte
le immagini proiettate dai falò
che specchiandovisi lo circondano;
le miniere di sopravvivenza dell’Olimpica,
incastonate nel culo dell’egoismo,
esportano bagliori di noia e rabbia
con l’astronave medievale di Serpentara.
Chi sogna si sveglia,
è il suono rancido dell’Ostiense ferroso,
superato dal frullatore di Porta Maggiore
in cui la forza centrifuga catalizza
le frequenze erosive dei tonni flaccidi
che evitano l’Esquilino per farsi mattare
nel labirinto a Casilino da raís
impavesati di croste di boria
e vilipesi dai loro cloni viscidi
simili ai vermi addensati nel fossato
dove levato non è stato alcun ponte
perché mai gettato tra Torrevecchia
e il Quartaccio morente di sviata utopia;
ogni soldato del rancore ignoto
sbircia la prima cloaca offrente rifugio.
La vista è offesa.
Non la pioggia ne peggiora lo stato
flagellando pagliacci ed assassini,
paggi fernandi privati del bello
e d’amore o parvenza sua incapaci
che tra le basse metafore annaspano
delle vite loro troppo sprecate,
rese indegne dall’autocompiacersi
di scopi non più alti d’un marciapiede;
quello che come topi senza paura
sbarrano per vilissima vendetta,
muso ostentando fisso e fissazione
di discorsi o parodia degli stessi,
con protervia creduta d’Urbe a chi
tradito ne canti il dissolvimento.
Ma il cielo è azzurro.