venerdì 13 gennaio 2017




Sulla portaerei della Magliana
gli addetti in giubbotto arancione
fanno segnali per guidare al peccato,
mentre ai supermarket della carne
sacerdotesse dai paramenti kitsch officiano
i riti dell’autodistruzione frustrata;
non c’è nessun albero per far pisciare i cani
e gli umani lo fanno tra artigli di latta
nelle oasi della cupidigia ai margini del Raccordo,
dove tunnel immobili aspettano
che gli si asciughino le ferite,
e non un fazzoletto giocato all’incrocio
o una fontana dal naso rifatto
raccolgono le lacrime nere della Tangenziale.
Ogni curva è vizio.
I ventri di balena degli ospedali
pullulano di vite al kerosene
che fuori si specchiano nelle alcove di morte
tra le scenografie al neon della Tiburtina,
della Prenestina, masturbazioni della speranza
sopraffatta da desideri senza fondo;
a Ponte Mammolo, a Piramide, a Lepanto
e davanti ad ogni porto dell’ade
profughi dell’anima sbarcano
da sudici traghetti intertemporali;
ai Prati Fiscali bigi il mangianastri
inghiotte storie dimenticate e finti amori
intanto che il riverbero delle bisce
divoranti cornetti accieca lo sguardo
di chi vede cuori.
Sopra il tendone ai Colli Portuensi nel circo
saltimbanchi dell’inganno e giocolieri
dell’egoismo scivolano dall’equilibrio
tra il versante del terrore e quello dell’odio;
li inghiotte il cimitero delle ville perdute,
allo stesso tempo che in tutti i palchi claudicanti
le botole assorbono il sangue grigio
dei nobili folli diseredati dall’amore,
e squali giganti nuotano nella melma
sorvegliando i confini della ragione
interrotta i cui brandelli laceri
circondano cento teste di polpi
che con i loro tentacoli sorreggono
il policentrico castello antico.
C’è chi ancora guarda.
Il vuoto pneumatico riempito di merda
colma molti cinghiali a Ponte Milvio,
trofei di se stessi senza porte alla magia,
non lasciando pascolo ai mufloni di Labaro
se non i suoi falsi resti raccontati
dall’opulenta valle per soggiogare
chi erba fetida cerca tra alte mondezze;
e nel Cocito dell’Eur sono confitte
le immagini proiettate dai falò
che specchiandovisi lo circondano;
le miniere di sopravvivenza dell’Olimpica,
incastonate nel culo dell’egoismo,
esportano bagliori di noia e rabbia
con l’astronave medievale di Serpentara.
Chi sogna si sveglia,
è il suono rancido dell’Ostiense ferroso,
superato dal frullatore di Porta Maggiore
in cui la forza centrifuga catalizza
le frequenze erosive dei tonni flaccidi
che evitano l’Esquilino per farsi mattare
nel labirinto a Casilino da raís
impavesati di croste di boria
e vilipesi dai loro cloni viscidi
simili ai vermi addensati nel fossato
dove levato non è stato alcun ponte
perché mai gettato tra Torrevecchia
e il Quartaccio morente di sviata utopia;
ogni soldato del rancore ignoto
sbircia la prima cloaca offrente rifugio.
La vista è offesa.
Non la pioggia ne peggiora lo stato
flagellando pagliacci ed assassini,
paggi fernandi privati del bello
e d’amore o parvenza sua incapaci
che tra le basse metafore annaspano
delle vite loro troppo sprecate,
rese indegne dall’autocompiacersi
di scopi non più alti d’un marciapiede;
quello che come topi senza paura
sbarrano per vilissima vendetta,
muso ostentando fisso e fissazione
di discorsi o parodia degli stessi,
con protervia creduta d’Urbe a chi
tradito ne canti il dissolvimento.
Ma il cielo è azzurro.

4 commenti:

  1. Grazie per questo bel poema allegorico, dalla forma densa e variegata come le visioni che lo ispirano; teso -e tesso- tra il ripulsivo che vuol dipingere e l’innegabile amore (tipo “no debía de quererte, y sin embargo te quiero”) manifestatosi dall’atenzione ai dettagli e da tante metafore che evidenziano che si trata dei luoghi di una vita.

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  2. Mo' l'ho capito:
    https://www.youtube.com/watch?v=L1KXSSYLXfo
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