venerdì 29 aprile 2011

Ritto olivo

Fu nel dolore suo più estremo che imparai ad amarla di più.
Fragile, insicura maschera graziosa, quale tutti la vedevano, rivelò a me nella tragedia la sua bellezza profonda. Senza trucchi sociali.
Credo che la meritassi, tra i pochi ad averla intravista sapendo già precipitare dentro di lei.
Felicità e disperazione possono scorgersi nel cambiamento, nell’inversione dall’uno all’altro senso del procedere. Sperimentare due volte il girare del destino nel solo istante di un battito impazzito è crudeltà che rimescola la feccia del pozzo del pianto. Ottenebra lo sguardo, oscura la mente. Lei sempre apparsa in balia delle correnti, mentre le si stracciavano i legamenti del cuore e delle viscere, si fece timone. Mantenne salda la rotta tra le lacrime burrascose. Fu forte, non creduta casa sulla roccia.
Non so ancora se tanta qualità le fosse nota: probabilmente no. Neppure quanti l’abbiano capito so, né importa. Ancor meno riesco a comprendere se le piaccia tirarla fuori con continuità, la fermezza che tiene dentro, quasi che offrirsi fuscello lo ritenga difesa contro il mutato stato dell’essere, e voglia così invece rivivere il tempo dell’abbraccio costante: non accorgendosi che si obbliga a precipitare ogni volta.
O invece ne percepisce appieno il rischio giallo, ma lascia farlo nella donazione che ne è altro pilastro, per concedere nobile scopo all’esisterle accanto.
Ascoltarne i sogni ai primi rossi del giorno sperando che rivivere e risoffrire serva davvero a giungere al distacco; sentirne gli occhi piegarsi verso il basso ad ogni richiamo invidiato; toccare l’infreddarsi del respiro davanti a scene di film che riaccendono le stesse luci; augurarle un perenne fondale di petali di glicine e gelsomino profumati di dolcezza; è tutto ciò a togliere le macchie al cavaliere che intende sostenerle la vita.
E posso scagliarmi così contro qualsiasi avversario che, lui e non io, la scambi per una Dulcinea di avvenenza inventata, per difendere e godere, io e non altri, della bontà bella della mia Aldonza, fedele servitore del vero fascino.
In lei, in quegli occhi che seppero rinviare il fiume, in quella pelle che nessun dolore ha saputo arricciare, in quel cuore che ancora più convinto sa battere per gli altri, irresistibile.
Irresistibile fu svelare flesso giunco per ritto olivo, dura essenza di pace. E vederlo da vicino.

giovedì 28 aprile 2011

Zeus e Mnemosine 3

La Quinta del Sordo di Goya non è forse una “caverna di Platone” da dentro la quale egli impara a dare forma e sostanza alle ombre proiettate all’interno? Nel mito platonico, non sono ombre di uomini, ma di statue. Ora sono ombre appartenenti a dimensioni non consce che il grande saragozzano vede e fissa sulle pareti della Quinta, cioè simulacri di aspetti della natura umana nascosti e coperti dal sonno della ragione. E quando esce, se ne ricorda: in quei ritratti ufficiali che esegue, non ci lascia scorgere quelle stesse ombre – terribili, grottesche, appartenenti a una realtà coperta – sui volti insani di una dinastia cadente che priva di ragione naturale si concede alla mostruosità? Noi impariamo molto su noi stessi ammirando quella produzione pittorica. Il poeta francese Yves Bonnefoy, riscontrando difficoltà a comprendere la pittura di Goya attraverso quella della sua epoca, propone una via nuova, empatica tra opera d’arte e fruitore. Per comprendere gli abissi di Goya è necessario prestare attenzione a quello che proviamo noi stessi quando osserviamo le sue opere[1].
Canova ci ha risvegliato tutto il senso di paura e di smarrimento di fronte al buio e all’ignoto, metafore nemmeno troppo astratte della morte, semplicemente ricavando, nelle sue tombe monumentali, degli anditi alle camere sepolcrali che si presentano come negazione della luce, tanto riverberata sui marmi bianchi quanto assente in quelle misteriose porte aperte su un’oscurità che è tanto più assoluta quanto più è confrontata con la relatività delle figure umane, da un lato, e da un altro con il modello di forma assoluta che è la piramide, come nel Monumento a Maria Cristina d’Austria di Vienna[2].
Klee ha invece dato spazio al ricordo delle pulsioni dell’infanzia e dell’adolescenza, vive nell’adulto in stati di coscienza che ha indagato e indaga la psicanalisi. “Ma quella della prima infanzia non è affatto una condizione di primitività assoluta, di non esperienza; su ogni vita che nasce molte vite vissute hanno lasciato l’impronta della loro esperienza.”[3] Non ripetendo le cose visibili ma rendendo visibili le cose, cioè la realtà, attraverso il connotato del gioco, egli ha negato proprio la realtà immanente. Infatti, per Freud il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale. Klee pretende di educarci liberando la fantasia[4].



[1] Y. Bonnefoy, Goya, le pitture nere, trad. it., Donzelli, Roma 2006.
[2] Cfr. in proposito G. C. Argan, Studi e note. Dal Bramante a Canova, Bulzoni, Roma 1970.
[3] G. C. Argan, L’arte moderna, RCS Sansoni Editore, Firenze 1990, p. 247.
[4] Anche l’artista svizzero ha lasciato in forma di saggio le proprie convinzioni: P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, trad. it., Feltrinelli, Milano 1959.

lunedì 25 aprile 2011

LM

L’ho rincontrato in una sera di fine estate in una casa da cui si sentiva il rumore del mare. Gli odori di resina mescolati con quelli del braciere. Poi è stato partecipe dei silenzi tra pianti e risate.
E poi più pianti ci sono stati. Veri, trattenuti o nascosti. Nascosti a lui, soprattutto. Forse più per non addolorarne il cuore buono che per non fargli sapere. Forse ha finto di non sapere perché questo suo cuore buono non avrebbe retto le sue donne costrette a condividere il dolore. Forse ha preferito che esse si mascherassero di speranza finché è stato possibile.
Ed esse hanno scelto di vivere tutte le ore con lui. Sono lunghe e sono brevi, le ore. Non passano mai, quando aspetti un responso o devi riempirle di normalità costretta; e ti sfuggono via come risacca quando devi trovare una soluzione o pretendi di colmarle di tutto il tempo che avresti desiderato. E, maledette!, non si allargano a contenerne di più.
Così, poche sono state e meno sono sembrate le ore che lui e le sue donne hanno ancora trascorso insieme da quella sera di mare un po’ grosso. Un autunno inoppugnabile, definitivo, rapido. Poi, è stata di certo la sua bontà a riscaldare quei primi giorni d’inverno. Ha voluto che le chiome contrastanti delle sue figlie fossero libere di infilarsi in un vento non freddo per intonare un canto a due voci, il canto di una vita giusta. Un uomo giusto, nel senso del Vangelo. Forse ha potuto decidere questo congedo veloce invece di un lento, insostenibile, addio. Forse ha preferito così.
Non lo fa rimpiangere di meno. Anzi.

sabato 23 aprile 2011

Gerusalemme parte II

Se si sta bene. Se non è Rosh haShanà[1] e si ha la febbre. Una febbre stupida, che una coperta troppo corta, efficace metafora delle proprie ambizioni e contraddizioni, ha fatto venire in albergo. Complice lo spiffero sotto la porta.
Allora si scende e si chiede in reception se hanno un’aspirina. E non ce l’hanno. Possono vedere su internet se per ipotesi ci fosse una farmacia aperta, però è Capodanno e in città è tutto chiuso. Proviamo. L’addetto cerca, cerca, poi telefona ma nessuno risponde. Ritelefona e nessuno risponde. Ancora, e ancora niente. Ripete che è tutto chiuso, e pare dispiacersi della rabbia che provoca. Poi le sopracciglia si ridistendono un secondo appena. Al millesimo squillo qualcuno ha risposto. Dice alcune parole, poi passa il telefono: ci si spieghi direttamente col farmacista. Per fortuna quello parla un inglese non perfetto ma comprensibile. Serve un po’ di paracetamolo e un sedativo della tosse, eventualmente un mucolitico. Ovviamente ce l’ha. Bene, ecco indietro il telefono al receptionist, che parla ancora un poco sottovoce ma assumendo un’espressione di nuovo accigliata, anche vagamente sgomenta. Infine, scrive. Conferma con un cenno e un’occhiata: l’indirizzo. Poi lo passa. È scritto in ebraico e lui si stringe nelle spalle: non sa dove sia, da qualche parte abbastanza fuori città, ma non la conosce; dovrebbe stare vicino a un posto che nomina e che forse al momento venne anche compreso, ma non ha idea di come ci si arrivi. Conviene prendere un taxi e chiedere al conducente, suggerisce.
Fuori dell’hotel i tassisti sono molto più scarsi dei giorni feriali: solo un paio, probabilmente in attesa di qualcuno dei rabbini che la sera prima festeggiarono nel ristorante dell’albergo. Leggono il foglietto ma scuotono la testa, si consultano tra loro e lo ridanno indietro dicendo, o piuttosto biascicando frasi incomprensibili. Non conoscono quell’indirizzo? Lo reputano non conveniente? Forse sono arabi, visto che lavorano.

Al diavolo! Tutto questo sta succedendo a me, e io ora ho un’idea. O meglio: non ho solo un’idea, ho anche una macchina. Ora la prendo e vado in cerca di una farmacia. Non c’è solo la macchina nella mia idea: c’è anche il ragionamento che Rosh haShanà è una festa ebraica e che dunque gli arabi dovrebbero stare al lavoro. E ci sarà pure una farmacia araba! Ho visto proprio il giorno prima come andare nella città araba, e così lo faccio. Mi incammino con ostentata sicurezza nelle strade dal sapore californiano e scendo nella spaccatura della storia lasciandomi le mura medievali alle spalle. Il paesaggio cambia, i volti pure. Soprattutto gli sguardi.
Pure la conoscenza e l’accento dell’inglese cambiano: in peggio.
Innumerevoli tentativi, quelli dicono cose, indicano, ma seguendo o ritenendo di seguire le indicazioni fornite non arrivo da nessuna parte, non scorgo alcuna farmacia. Tipi panciuti si consultano con tipi ossuti, poi i panciuti mi sorridono e con determinazione mi spiegano di proseguire alcune centinaia di metri e domandare ancora perché la farmacia è là ma devo domandare. Forse sarà su una stradina interna, penso io e mi fido. La cosa più strana è che ora ricordo che l’indicazione definitiva me la diedero in una salumeria. L’ovvia impossibilità della circostanza rende l’idea della febbre che montava. Oppure no, chissà, forse in quel pre-delirio di Capodanno ebraico per me potevano essere arabi cristiani. Ne avevamo conosciuti già. Uno in particolare, un signore attempato dagli occhiali quadrati, lo avevamo conosciuto spiando la vita appena fuori dai percorsi dei gruppi di pellegrini ed era stata una piacevole conversazione; poi ci aveva condotto a un ristorante cristiano prossimo alle sede del Patriarcato cattolico; infine si era offerto di farci da guida per l’indomani. Avevamo disatteso l’appuntamento per perderci da soli e per la febbre sopravvenuta. Cristiano era pure il giovane pingue che ci aveva venduto una memory card a prezzi inenarrabili ma anche spiegato molte cose su come regolarsi da quelle parti. Insomma: arabi con il crocefisso sotto al Golgota ce n’erano. Ma no, non credo che entrai in alcuna salumeria.

Fatto sta che ad un certo punto del mio cercare un signore parla un inglese migliore e mi dice con fare convincente:
“Vedi là dove sta uscendo quell’automobile? Entri lì, sali per la strada a sinistra e dopo 500 metri sulla destra c’è la farmacia.”
Preciso, sicuro, affidabile: vado. Forse mi ricordo anche di ringraziarlo.
Non penso a sparargli. Nemmeno con un colpo finto di una delle mille armi in vendita su ogni bancarella araba d’Israele, copie perfette di quelle che da qualche parte dovevano pure essere in commercio. In mano a tutti i bambini e gli adolescenti arabi d’Israele sembravano armi vere, usate con padronanza e verosimiglianza di contesto. Dovrei?
Seguo le indicazioni, impossibile errare. Imbocco dov’era uscita quella macchina, prendo a sinistra, inizio a salire. Il paesaggio non è né come presso l’albergo né come lungo la Via Crucis. Sembra vagamente un film neorealista nell’Italia del sud dell’immediato dopoguerra rovinata dalla risalita americana. Questa strada in salita, stretta, sfasciata, con un’arlecchinata di asfalti e cementi e buche mi sembra di averla vissuta in televisione, una di quelle pellicole con i ragazzini arruffati, i muli, le case bucate, i visi cotti dal sole e dalla povertà. Pellicole in bianco e nero, anzi con quella dominante giallognola dell’invecchiamento. Qui la stessa dominante la dà la voce del deserto.
È ripida la strada, e s’inerpica tra case lamierate dalle finestre piccole, quando ci sono; senza ordine, medioevo mediorientale dei nostri giorni. Nostri! I giorni palestinesi non ci appartengono tanto quanto ne abbiamo notizia a ogni telegiornale. All’inizio questo selvaggio paesaggio urbano mantiene una qualche ariosità, che si rarefa salendo oltre. Già: oltre. Oltre i 500 metri predetti dal gentile signore che parlava un inglese migliore. Avrà calcolato male. Al doppio della distanza, sono perduto.
Se si riesce a vivere un dopo, spesso ci si interroga sull’imprevedibilità degli eventi, sugli attimi che cambiano la vita, su quanto improvviso sia il fato. Non fu il mio caso.
Incosciente di aver bisogno di coscienza, ebbi il mio dopo. Tuttavia nulla di quell’avventura fu istantaneo. Avrei avuto modo di accorgermi dei gironi dove stavo gradualmente salendo. Capovolgimento d’immagine e di mondi, in una terra dai dolori che nulla insegnano. Invece andai. La febbre montante? L’idiozia permanente?

Insomma, salgo. Con la mia macchina della Hertz porto il cuore un po’ più in là di quanto avrei pensato prima di stare in questo regno di bilico. Giudea benedetta e maledetta. Non i prati, le dolci colline della Galilea, la terra dove forse la primavera è più verde; calcare fino al Sion, poi la sabbia. Ottimo posto per morire. Salgo credendo ancora di trovare. E trovo, già! La strada è ora davvero stretta, non dà possibilità di manovra per voltarsi e ridiscendere. Voglio fermarmi e cedere, però decido o mi lascio decidere a percorrere quaranta metri ancora. Quanti bastano perché all’interno dei vetri, nell’aria climatizzata di una macchina ebrea, entri la disperazione di un nugolo di bambini palestinesi, appena sedata dalla voglia di gioco. Una trentina di piccoli fedayn apparsi dal nulla circondano l’automobile brandendo pistole e kalashnikov. Il mio arrivo è perfetto per la loro simulazione, è una variabile imprevista che farà rifulgere le tecniche di guerriglia dei più bravi. Sono perfetti. Sembra un film, uno di quelli fatti bene. Solo l’età dei protagonisti è differente. Spero non quelle armi e che siano invece finte entrambe. Ma sì, sono quelle delle bancarelle. Mi auguro. Fatto è che ho due tipetti sui 9-10 anni attaccati alla gialla targa israeliana, cioè ebrea, quattro-cinque tra gli 8 e i 12 per ciascun lato della vettura, altri mille, diecimila, tutto un esercito irregolare mi turbina intorno. Ho paura. Spengo l’aria condizionata. Ufficialmente tutti mi ignorano: quelli appiccicati all’auto, quelli che impazzano in giro, quelli con le armi vere dentro le case. Ma capisco che una sola partenza sbagliata in salita può fregarmi. Non aspettano altro. Se ne tocco uno, non so se ne esco.
Uno dei più grandi sta ritto un paio di metri davanti. Dev’essere un capo. Di quelli che stanno vincendo. Ero bravino anch’io al gioco della guerra; per come può esserlo un vitaminizzato figlio del boom economico, ma riesco a capire l’andamento della battaglia. E chi comanda.
Avrà dodici anni. I capelli nerissimi e morbidi nonostante l’ambiente. Indossa una maglietta dello stesso colore della pelle. Guarda i movimenti dei suoi verso la mia sinistra ma contemporaneamente sorveglia i miei. Decido che deve vedermi. L’unico modo di uscirne senza danni. So di non dover aprire la portiera, né agitarmi. Se è già un animale, sentirà i miei occhi sui suoi. Mi faccio un po’ in avanti dallo schienale, così da attenuare, per lui, i riflessi del parabrezza. Lo guardo, intensamente. È già un animale.
Ha occhi neri e induriti dalla vita. A dodici anni. Non è un cliché. Le circostanze ti chiamano a giochi che non sempre decidi (io non decidevo di fare il regista). Stavolta il gioco che si è presentato è: decidere la sorte di uno straniero. Lo svolge bene. La durezza e la fierezza del suo sguardo sono notevoli, quasi lo invidio. Non so che intenda comunicargli e tanto meno cosa riceve lui. Apprezzo la palese, quasi ostentata capacità di analizzare ed elaborare a velocità elevatissima. Non mi fa né cenni né espressioni. Solo a un certo punto si volta e grida un ordine ai suoi, ma anche quello ben chiaramente non relativo a me o alla mia situazione. Riprende il gioco precedente. Era quest’altro un po’ troppo rischioso, troppo prematuro? Nel giro di un ritorno della mia schiena a contatto della poltrona il nugolo è scomparso verso il basso.


[1] “Tre libri sono aperti davanti a D-o nel giorno di Rosh haShanà: uno per i giusti (Tzaddìkim) completi, uno per i malvagi (Reshaìm) completi e uno per quelli che stanno a metà strada, che non sono, cioè, né totalmente giusti, né totalmente malvagi (Benonìm). I giusti vengono iscritti immediatamente nel libro della vita, mentre i malvagi vengono iscritti immediatamente nel libro della morte. Per coloro, invece, che sono Benonim D-o attende a dare il giudizio fino al giorno di Yom Kippùr e se avranno fatto teshuvà (penitenza) nei giorni che vanno da Rosh haShanà a Yom Kippùr, allora verranno iscritti nel libro della vita; altrimenti verranno iscritti nel libro della morte” (http://www.nostreradici.it/Rosh-haShana.htm#teshuva#teshuva).


giovedì 21 aprile 2011

Jewish rock

ITALIAN
Cinque musicisti sul palco. È noto che uno sia israeliano; altri tre, non famosi, hanno chiari tratti semitici e il quinto, famoso, non è certamente di nazionalità israeliana ma potrebbe, perché no?, essere ebreo.
Suonano rock, un bel rock con marcata tendenza progressive come piace a me, sono bravi, si comportano da bravi rockers, parte del pubblico è in tranquillo delirio, altri ignorano squallidi ossimori ma siamo tutti soddisfatti.
Li guardo e mi chiedo: gli israeliani hanno il servizio militare obbligatorio, forse qualcuno di questi – così spensierati, così “fichi” – era commilitone di Uri Grossman, un altro forse di Yizthak, simpatico chef a Parigi e amabile condivisore di uno sciagurato volo per Tel Aviv, un altro ancora potrebbe conservare relazioni epistolari con un militare di carriera che ha sparato contro Vittorio Arrigoni.
Il pensiero mi turba.
La mia generazione aveva l’obbligo di leva, si era in piena guerra fredda (che fortuna averla fredda!), ma l’idea era quella di 18 mesi prima, o di un anno, dopo, persi. Persi nel nulla, nella sicurezza che il massimo rischio era spararsi su un piede ed esser presi per i fondelli tutta la vita. Per il resto noia e leggende di sadismo.
Suonano, guardo sul palco e vedo simboli del pacifismo. Chi li porta si sarà morto di paura sulle colline del Libano meridionale? Avrà sparato sugli agricoltori a Gaza? Avrà abbattuto le case dei genitori di un kamikaze? Avrà ricacciato in pancia le budella di un compagno ferito? Sarà andato all’arrembaggio della Freedom Flotilla? Quanto Negev è rimasto in quegli occhi?
L’impossibilità di rispondere a queste domande mi ricaccia in un angolo tra i cessi delle donne e degli uomini. La musica arriva forte ugualmente, ma non vedo.

ENGLISH
Five players on stage. It is known that one is Israeli; three others, not famous, have clear Semitic facials and the fifth, famous, certainly is not an Israeli national but could, why not, be jew.
They play rock, a good rock: quite a marked trend towards progressive rock with the way I like, they’re good, they behave as good rockers, part of the audience is into quiet frenzy, others ignore squalid oxymorons but we're all satisfied.
I look at them and ask: Israelis have compulsory military service, perhaps one of these - so carefree, so "cool" - was comrade of Uri Grossman, another perhaps of Yizthak, friendly chef in Paris and a lovely sharer an unfortunate flight to Tel Aviv, another could still maintain epistolary relationship with a career soldier who shot Vittorio Arrigoni.
The thought disturbs me.
My generation had compulsory military service, was during the Cold War (what a chance to have it cold!), but the idea was about 18 months, first, or, later, a year lost. Lost in the void, and you knew that the greatest risk was to shoot yourself in the foot and be taken for a ride all your life long. For the rest, boredom and legends of sadism.
They play, I look at the stage and see symbols of pacifism. Who wear them, did he have been scared to death upon the hills of southern Lebanon? Will he have fired on farmers in Gaza? Will he have torn down the home of parents of a suicide bomber? Will he have stick guts again in the belly of a wounded comrade? Will he have gone to the boarding of Freedom Flotilla? How much Negev remained in those eyes?
The inability to answer these questions thrusts me back into a corner between bogs of women and men. The music comes on strong all the same, but I don’t see.

martedì 19 aprile 2011

Gerusalemme

Sarà stato alto sui cinque metri. Grigio.
Ci comparve davanti all’improvviso mentre avevamo smarrito la strada per Gerico. Sporco.
Impediva di proseguire con improvvisa tracotanza. Zitto.

Dicono che ci siano due città, ma ne individuai almeno cinque. Tre sono unite e in qualche caso un po’ mischiate, se non mescolate. Una ancora è virtuale, vera quando la consideri. Un’altra è separata da tutto, incredibilmente anche da sua sorella.

La culla delle tre grandi religioni monoteiste è arroccata sullo spartiacque di una catena interna parallela alla costa. A ovest le pinete di aromi mediterranei, le vallette coltivabili, le case in pietra di sapore latino, la terra, i fiori e i frutti. A est il deserto.
Gli arabi stanno a est.

Si arriva, come arrivammo noi, salendo. Respirando: odori reali e arie fittizie, come ce ne riempimmo. Poi non vedendo finché non si vuole vedere ciò che era in sé e aspettava d’esser visto. Come facemmo noi.
Forse già pieni di deserto, oppure solo sporchi di sabbia e di vento.
Certo impropri a quelle strade e quelle mura, avulsi dal mistero e dallo scontato, lontani da ogni recondita mistica così come da tutte le palesi mercificazioni. Con una preparazione minima, distante nel tempo, carichi di raffazzonati concetti mai sviscerati, da soli; con rischi di perdite e perdizioni.
D’altronde già perso, io, nella luce bambina di occhi che piansero.
Così, insanamente inconsapevoli approcciammo la città, le città; immergendoci incoscienti però senza bombole, respirando l’aria vera del posto, con tutti i rischi del caso.
Che è il modo migliore di vivere Gerusalemme.

lunedì 18 aprile 2011

Zeus e Mnemosine 2

È possibile distinguere due momenti educativi nella storia dell’arte, uno pedagogico e uno didattico.
C’è un’arte che aiuta l’uomo a crescere, a capire cose su se stesso, a riflettere criticamente sul proprio percorso evolutivo indagando e fornendo chiavi interpretative del suo essere nel mondo. Al di là di quelli iconici, il codice con il quale l’artista comunica con gli uomini suoi simili è quello delle memorie, personali e collettive, conscie e inconscie.
Il valore pedagogico del Kandinskij che, abbandonando il suo passato di pittore figurativo, un giorno dell’autunno 1910 dipinge intenzionalmente uno scarabocchio e riapre all’arte interi stadi evolutivi della psiche e dell’avventura umana, è innegabile tanto appare chiaro e forte[1]. I significati dello “scarabocchio” e del disegno infantile in generale come forma di rielaborazione di informazioni e ricordi, di codifica e rappresentazione degli avvenimenti che circondano il bambino, e con lui il “bambino-uomo”, sono stati spiegati da tempo[2]. È un ricreare le forme delle cose attraverso il gesto. «Kandinskij … spinse lo sguardo mentale così in profondità da riguadagnare l’esperienza del movimento artefice della realtà delle forme. Un’esperienza, questa, che è già storicizzata, sedimentata, obiettivata, nello stesso tessuto organico dell’occhio, e che per congenialità l’occhio sa trovare nel cuore di ogni cosa del mondo o nel mondo stesso preso come cosa a sé.»[3]
Fontana che taglia la tela, che si chiede cosa ci sia dietro, che sconvolge la convenzione bidimensionale e si inoltra in concetti spaziali, richiama a tutte le nostri menti ricordi ancestrali e assomiglia al bambino che rompe il giocattolo per vedere che c’è dentro, da dove viene o dove continua quella parte del circostante posta alla sua attenzione[4]. Un gesto prepotente e candido al tempo stesso, violento e ingenuo: la conoscenza inizia con un atto di distruzione e rivelazione, non avendo attribuito all’oggetto alcun significato pregresso o aggiunto.
Ma prima c’è lo svelamento dell’inconscio. In questo la grande arte ha preceduto la psicanalisi.


[1] L’artista ci ha lasciato saggi teorici a spiegare le motivazioni della propria arte: W. Kandinsky, Della spiritualità nell’arte particolarmente nella pittura, trad. it., Religio, Roma 1940; Id., Punto linea superficie, trad. it., Adelphi, Milano 1968; Id. e F. Marc, Il Cavaliere azzurro, trad. it., De Donato, Bari 1967. 
[2] Per la letteratura in Italia, v. A. Oliverio Ferraris, Il significato del disegno infantile, Boringhieri, Torino 1973.
[3] M. T. Gentile, Responsabilità dell’immagine. Formazione dell’identità umana, Edizioni Studium, Roma 1981, p. 243.
[4] Su Fontana e lo spazialismo una esauriente bibliografia è contenuta all’interno di L. Colavero, Omaggio a Lucio Fontana, http://www.geocities.com/Athens/Agora/5156/.


domenica 17 aprile 2011

Zeus e Mnemosine 1

Le Muse sono figlie di Zeus e Mnemosine, dunque dell’energia creatrice e della memoria. Ecco qualcosa che è più di un legame, è piuttosto la coessenza in un’unica incarnazione delle due entità, una realtà che l’antica mitologia greca rendeva efficacemente nel gioco delle personificazioni. Le arti, dunque, non esulano dal ricordo. L’artista vive di estro e di reminiscenza. Ogni sua manifestazione comunica il risultato dell’uno e dell’altra fuso nell’arte. È possibile rendere questo contenuto comunicativo un’espressa comunicazione didattica, cioè l’artista può rendere esplicita nel suo lavoro la componente del ricordo, dell’esperienza del conosciuto, usando la genialità creativa per coniugare le testimonianze che noi chiamiamo beni culturali in un linguaggio proprio del contemporaneo che ne favorisca la comprensione.
Così, egli diventa interprete della memoria diffusa; si fa sbocco di quel patrimonio antropologico, forse addirittura ancestrale, presente in ogni uomo e, attraverso la storia di questi, nell’ambiente; attraverso il suo comunicare rende evidente in ciascuno dei riceventi significati lontani nel tempo per provenienza ma vicini per valore e funzione, risveglia coscienze delle cose e dello stesso essere umani assopite a causa della socialità, delle convenzioni, delle sovrastrutture culturali.

venerdì 15 aprile 2011

Amicizia distante

Per un estate di vent’anni fa e più, ci si sente amici. Ci si è visti, dopo, quattro volte. Mica troppe. Eppure.
Mi chiamasse adesso, partirei; piombasse qui, stravolgerei le mie giornate. Sono certo di poter contare sulla reciprocità.
Cosa unisce due persone in tal modo? L’essersi conosciute da giovani, l’aver condiviso qualche risata e qualche scherzo; o il fatto di vivere lontani, di parlare lingue diverse, proprio il non frequentarsi se non epistolarmente? Già il dover usare una lingua comune non propria obbliga a maggiore sincerità. Il dominio delle perifrasi e delle sfumature semantiche permette ipocrisie a vari livelli, ma se devi costruire una frase soggetto - predicato verbale - complemento oggetto e scegliere i lemmi in un ventaglio di non troppe decine (com’era all’inizio), è il sentimento che s’impossessa della comunicazione. Che bello! Era il nostro parlare: sì, sì; no, no.
Forse, anzi è molto probabile, che se ci fossimo frequentati l’amicizia non avrebbe durato. Appaio cinico a pensare questo e contemporaneamente a coltivare ancora il legame, eppure credo sia la semplice e non scandalosa verità. Peraltro, le ipocrisie le detestiamo entrambi.
Abbiamo molte cose in comune. Ci uniscono. Tante altre ci dividerebbero. La lontananza permette di non frequentarle. Restiamo dunque nell’amicizia.
Dopo più di vent’anni. Senza vivere nel ricordo, ma ricordando con piacere.

mercoledì 13 aprile 2011

Moralista

In televisione c’era l’ennesima zuffa tra politicanti e lecchini di politicanti. A un certo punto, serve e servi del capo, per giustificarne l’andare a puttane, han preso ad urlare verso chi stigmatizzava tale abitudine: “Moralista! Moralista!! Moralista!!!”. Come se fosse un epiteto, in un ribaltamento delle cose.
Perché è ora di finirla con questa storia del moralista.
“Bè, ma questo è moralismo.”
“Intendiamoci, io non sono un moralista…”
“Basta con questi moralisti!”
Quante volte frasi simili hanno offeso il pensiero. Ho come percezione che questa guerra scaturisca da una sorta di pregiudizio anticristiano, cioè verso chi ha ricevuto insegnamento di non giudicare… Non ricordo, forse non so, cosa ne pensasse Croce, ma non possiamo non dirci moralisti. Sia come sia, è una posizione insostenibile. Girando per dizionari si trovano varie accezioni, in genere volgenti al negativo, successive all’originale, che dovrebbe orientarsi sulla definizione di persona che valuta la realtà in base a un proprio, acquisito sistema di valori morali.
E dopo millenni di civiltà, come si può non farlo?
Diviene allora una questione di percentuale: non si è moralisti nel giudicare conformemente al nostro essere umani sino a una certa quota, poi i comportamenti che da essa eccedono vanno invece esaminati con occhio scevro da riferimenti precostituiti. Bah!
Condannare l’omicidio cos’è, moralismo? Una schiavitù dettata dal pensiero cristiano? Il parto di menti deboli? Nessuno, neanche un omicida, pensa una cosa del genere.
A sentire tanti sgombri pensatori, scopare a destra e a manca senza sentimento non può essere oggetto di giudizio, però si vuol fare esistere una distanza anagrafica che indichi liceità di accoppiamento. Puoi fottere uomini e donne, amici e puttane, da vecchio con le ventenni, da matura con gli amici di tuo figlio e guai a condannare: però un ventenne che fa l’amore con una tredicenne rischia l’arresto e, soprattutto, l’etichetta di mostro. Questo, da parte di chi non è moralista.
Ma non è invece positivo guardare al mondo secondo i propri convincimenti morali? Stimare ciò che si ritiene bene e disprezzare quel che si reputa male? Esprimere con ogni atto e con ogni parola, e volendo con ogni dovuta omissione, il codice di comportamento che si possiede?
Domandare è forse moralismo; non rispondere è indegno.

martedì 12 aprile 2011

E tutti parlano

E tutti parlano.
Non un battito di ascolto si interpone tra il clangore di parole inudite né la pena di pensieri sbiancati induce la pietà.
Parlano i vecchi, anche da soli, parlano i padri, soprattutto al vuoto, urlano le madri e strillano i figli; blaterano cognate e suoceri, zii e cugini. L'unica affermazione dell'esistere è l'effimero di aria mossa, cozzante con altra spinta dalle altre bocche.
Si parla di tutto e d'ogni cosa, si parla del proprio e dell'altrui, sempre, sempre, sempre. Mai si dice qualcosa.
È un affanno perenne, sgomenti del possibile silenzio, eventuale specchio di una pace che non si possiede e non si concede.
Necessità non serve per articolare suoni seriali, scarsi di ricchezza, ripetitivi. Un nulla non c'è che lasci a riflettere, sempre occorre riempire ogni spazio creato da messaggi esterni, in un vortice del niente che pervade le menti.
Prima di un difficile pensiero arriva la fonesi. È un primo istinto, uno slancio mortale che precipita chiunque nei peccati atei dell'esistenza inconsapevole.
Tacere è perdere; e un mondo di battuti non accetta sconfitte.
E tutti parliamo.

lunedì 11 aprile 2011

Scivolamento dell'estetica

Scompaiono i negozi di belle arti. Vado dov’era uno, le serrande sono abbassate. Mi allungo da un altro, cerco con l’occhio le tele che spuntavano fuori fin sulla strada, ma c’è un diverso esercizio, ora. Disperato peno il traffico sino al Fero de cavallo e trovo qualcosa; niente comunque rispetto al ricordo.
In compenso, aumentano quelli di parrucchiere. Piccoli o medio-piccoli, sono una costellazione, no, una galassia; allungata sino alle più vuote periferie, costituita di buchetti dalle insegne agghiaccianti. Un firmamento diurno di shampiste di qualche esperienza e poca scuola.

Abbandono, imbarbarimento, egocentratura dell’estetica?

sabato 9 aprile 2011

Il trono della superbia

Casa borghese un po’ trascurata. Interno notte.
Gruppo di persone in allegria, rumori di varie conversazioni che si intrecciano e sovrappongono.
La scena è ingombra di mobili e persone. Suppellettili di vario genere e provenienza in giro, senza alcuna apparente progettualità.
Il protagonista è il padrone di casa. È pesantemente assiso su un corto divano dai braccioli dorati e i velluti lisi. Ne occupa ben più della metà. Non è vestito bene, tuttavia con indumenti costosi.
Gli ospiti sono anch’essi vestiti in modo non formale. Devono essere persone di famiglia.
Tutti tessono le lodi del padrone di casa.
“Un pozzo di scienza.”
“Come legge la Divina Commedia…!”
“Ha scritto diversi libri.”
“Se non ne sa di arte lui…”

Poi, uno degli ospiti: “Oggi abbiamo visitato la chiesa di Sant’Ignazio.”
Una voce: “Quale?”
“Sant’Ignazio di Loyola. Quella bellissima con il famoso trompe-l’oeil.”
Il padrone di casa: “Ah, lì è Borromini!”
Un giovane: “Pochi sanno che si è ispirato alla sezione del corpo di un’ape. Sì, di un’ape.”

Mi chiedo mentalmente se Borromini fosse già morto quando fratel Andrea Pozzo dipingeva la finta cupola (sì) e se questi fosse già nato (appena) quando il ticinese dialogava con l’universo pensando a Sant’Ivo. Alla Sapienza.
Assiso io sul trono della superbia mia fra i tanti che sanno di questa chiesa e degli alti concetti che la ispirano.

venerdì 8 aprile 2011

Più fremiti non corrono

Più fremiti non corrono
Non posso io volare
indenne sopra le ore
fingendo di non piangere
Non può sirena alcuna
incatenarmi ancora
ad astratti timoni
Non possono i fottuti
pazzi ciechi colpevoli
assetare il silenzio
strozzandolo di sangue

In angelica schiera
da ovunque gloria specchino
e in turbine d’aiuto
per ogni vinto sogno
scendano le legioni
a vincere quaggiù

giovedì 7 aprile 2011

Comicità involontaria

Ora che si riavvicina la Settimana Santa, mi imbatto in un altro appunto, del 27 marzo di tre anni fa, allora nel tempo pasquale, che pubblico leggermente riadattato e volgendo i verbi al tempo passato, sebbene l’attualità sostanziale resti.

Tutto avrei immaginato da una mattina del Sabato Santo meno le due perle più comiche d’una settimana minata nella purezza della santità: non pia, non pietosa.
Intorno alle 9:30, Paola Saluzzi, altrove scomparsa, metteva in mostra il fervore clericale che ancora sta pervadendo molti (credenti e non) prestando il corpo biancovestito, comunque alquanto attillato, e la voce. Però separati! Eccola incedere solenne e ispirata per chiese e luoghi francescani d’Assisi, strisciare allusiva la mano sulle pietre (“le pietre che parlano”!), come in certi film anni ’60-70, “recitando” fuori campo (perché?) un testo scritto da altro autore intersecato da altre quattro voci che citavano Giovanni Paolo II e altro (spero anche il Vangelo).
Empiamente comico.
Finito, girai su un altro canale, erano circa le 10:00, c’era un’intervista. L’arcivescovo di Bologna, Caffarra, diceva al padre di Lapo Elkann che due punti fondamentali dell’educazione sono l’autorevolezza di chi la trasmette e la proposizione di modelli positivi da parte degli adulti ai giovani. Al che l’imbarazzato intervistatore replicava qualcosa tipo: “Spesso gli adulti sono più confusi dei figli”.
Impietosamente comico.

mercoledì 6 aprile 2011

se solo voi sapeste

se solo voi sapeste
se solo frequentaste
il buio della notte
senza stelle né pace
al freddo
imposto e ricercato
farsi prora e tempesta
e spruzzo, non avendo
onde che da discendere
in fretta
con l’orizzonte in basso
dentro quel nero urlante
che è paura e gioco folle
che rimedio non ha
né freno

(continua)

lunedì 4 aprile 2011

Lo stadio di Braga

Lo stadio di Braga, nel nord del Portogallo, realizzato dall'architetto Eduardo Souto de Moura, ha vinto il Pritzker Architecture Prize 2011. È il massimo riconoscimento a livello mondiale, una sorta di Nobel per l’architettura. La caratteristica dello stadio di Braga è d’essere costruito nel fianco di una montagna. Nel. Infatti, sui due lati corti, non ci sono tribune. Dietro una porta, c’è una bella parete rocciosa; dietro l’altra, la vista fugge e rimbalza su prati e alberi. Le strutture delle due grandi tribune sono unite da fili di metallo.
Ora, visto dall’alto si riconosce che l’impatto ambientale è comunque non basso: però è bene che si inizi a premiare questo coraggio dell’architettura di non costruire, di non modificare indiscriminatamente il preesistente. Trovo che la bravura oggi sia quella di leggere un sito e inserirvi le costruzioni. Va fatto un passo indietro, il maledetto homo faber deve essere più umile.
Non è sconfortante che in un’area si taglino alberi da frutto sparsi tra le erbe, si costruisca una villa e poi si ripiantino tuje o laurocerasi? Che si spiani un filare di pioppi per aprire una strada e poi la si costeggi di mirabolani? Sarebbe stato più intelligente e forse facile disegnare la pianta della villa intorno alle belle e utili chiome dei pruni o prevedere che quei pioppi nobilitassero la spina centrale della nuova via.
Esempi banali ma immediati. E però anche come filosofia del costruire, occorre che l’uomo evoluto si allinei al disegno della natura. L’uomo moderno si è troppo a lungo beato di essere elemento modificatore del paesaggio. L’uomo preistorico ha terrazzato fianchi di montagne, quello medievale ha disboscato credo più di tre quarti d’Europa, ma era per mera necessità. Poi non più. Poi c’è stata l’imposizione.
È tempo di correggere. Come diceva Sestini, il paesaggio è una creazione storica, equilibrio dinamico tra l’opera dell’uomo e quella della natura, la quale tende a distruggere le impronte che l’altro costituisce o ricostituisce. L’uomo si è però sentito più forte ed ha spostato la linea di quell’equilibrio. Occorre riportarla indietro, a cominciare dalla nostra piccola villetta.
Prima che lo faccia in un attimo il prossimo tsunami o terremoto o eruzione.