giovedì 31 marzo 2011

La prima volta che sentivi nel vento il sapore di primavera

La prima volta che sentivi nel vento il sapore di primavera,
l’aroma dolce in un’aria ancora fresca, ma già non aspra,
e c’era dentro il gusto del mare vicino per i cumuli che forse lo vedevano
eppure lontano nel quotidiano dell’inverno a ridotta luce artificiale
Eri distratto, distolto, non partecipe alla pulsazione della Terra
quando improvvisa una goccia di sentimento ti si insediava nel naso,
che si attirava ad ovest e ne respirava di buono l’umido alito,
e allora dicevi “Ecco il profumo della primavera” a nessuno se non a te
però di intima felicità ti colmavi come se l’anno ogni anno rinascesse
Erano quei giorni di febbraio dopo san Valentino ancora di gelo
e in genere portavano pioggia, feconda e non più dilavante,
un’acqua discontinua come una femmina giovane o ringiovanita
che si offriva al terreno risarcendolo di troppe violenze, troppi sprechi,
nutrimento che penetrava lieve e dava a inutile fanghiglia speranza
Facile che si verso sera, appena all’inizio dell’imbrunire riallungato,
la promessa di un nuovo giorno come di nuova stagione lì per formularsi
Non strana la percezione del risveglio prossima all’ora morfica
perché nella corsa ciclica è promessa di ritorno il declino del sole
E intanto diafani turbini di storni inseguivano una ragione
nell’incomprensibile, ammaliante acrobazia dei propri stormi
attesi da fronde sempreverdi mentre indugiavano nell’aria pulita

(continua)

martedì 29 marzo 2011

Libri non trovo

Libri non trovo
Nulla descrive
te qui aliena,
non mondo esiste
dove armonia
viva in te pulsi
come fortissima
su questo sguardo
che ti rivela
donna incosciente
di suoi domani
certi, magnete
morbido candido
d'ogni illusione,
dolce raccolta
di alme parole
ma vane in te
indescrivibile
Ne farai libri

lunedì 28 marzo 2011

da "Gran Sasso"

E dunque volò.
Era a mezza costa su un versante a bacìo sospeso tra correnti d’aria incerte della propria vocazione, se a discendere o ad ascendere, quando repentino da sotto una cengia piuttosto alle sue spalle uscì un fiotto di nube come una slinguata che lo bagnò, appesantendolo. Avvolgendolo e superandolo divenne un volto demoniaco eppure non terrifico, ma sorprendente per la sua presenza in quell’ambiente sempre angelico. Sempre angelico. Elevazione, angeli. Nuvole, ali.
E invece: pietre trite calde, démoni. Schiacciato al suolo rovente, démoni. Sempre démoni. Oppressione, forconi.
Altre facce gli erano sempre comparse dalle rocce modanate dalla natura, dal caso, dal mistero. Erano magari visi saccenti o muti come fermati in un attimo banale, profili da scacciare nel baleno di un fare spallucce; ma le voci presunte da essi provenienti erano solo suggestioni o non piuttosto richiami da dimensioni diverse?
“Si tacciano!” aveva gridato più d’una volta dentro di sé, rivolto a un interlocutore superiore, arcano termine ignoto.
Non erano tuttavia figure cattive, talvolta appena surreali, spesso mutuate da rappresentazioni assorbite nel tempo. Ad ogni modo, se esse stesse non erano d’angeli, degli angeli si sentiva il profumo, anche se gli angeli non profumano.
“No, e se invece profumassero? Di rose, ecco. Certo, di rose, come quei frati in odore di santità che così chiamano donne in attesa di chiamata. Povere donne. E povero Dio.”
Insomma, erano più dalla parte degli angeli.
Non da quella dei démoni. No. Quanti démoni in giro, intorno, insieme. Però mai lassù, mai da sotto una cengia in un fiotto di nube.
Non parlava, comunque. Quelle di parte angelica parlavano, se c’erano. A tratti parlavano anche tanto. Ma adesso niente.
Adesso parlavano soltanto le voci dei gracchi.

sabato 26 marzo 2011

Le persone non si sono mai incontrate

Scrive su Facebook la mia amica Kadia: “Non è il tempo o la distanza che allontana le persone. Le persone si allontanano perché vogliono allontanarsi E si perdono perché in realtà non si sono mai incontrate.” Forse è una citazione. Cerco, su Internet è diffusissima. Probabilmente l’autrice si chiama Rossella Porro. Ma non mi sembra una delle tante insulsaggini collocate in un buco profondo per farle sembrare profonde.
È vero, troppo spesso le nostre relazioni sono soltanto uno scivolare di una persona sull'altra, senza nessun aggancio, tanto meno mescolamento. Talvolta fa più l'attrito, lascia segni e conseguenze maggiori. Rimaniamo più invischiati con personaggi coi quali abbiamo avuti scontri o malumori che non con chi si è comportato bene con noi. Fino ad essere più inclini all’odio duraturo che non all’amore perenne.
Cos’è, egoismo, individualismo, menefreghismo, sfruttamento? O piuttosto paura; paura di confrontarsi, di mettersi in discussione, di dover fare un piccolissimo sforzo di cambiamento; paura di dare un po’ di sé, del proprio tempo, del proprio io?
‘Cause fear, fear, she’s the mother of violence.

giovedì 24 marzo 2011

Lo scritto che segue l'ho recuperato da un appunto databile a fine febbraio 2010. Mi piace pubblicarlo.

Viene stasera da noi un mio amico, ritrovato dopo quasi vent’anni. In vero, non è che l’abbia cercato molto per questi quasi vent’anni. Anzi, per niente. Però a un certo punto sapevo che l’avrei rivisto, se n’erano create le condizioni. E ho atteso.
È bello che abbia ritrovato una persona diversa. Sarò diverso anch’io? Lui per me è migliorato. È anche invecchiato meno di me, direi. Ci stiamo rifrequentando. Non la quotidianità da branco di una volta, certo. Stiamo lavorando a un progetto insieme, per questo è venuto qui.
Ci capiamo. Non avevo in testa idee precise, ma quando ascolto le sue proposte sento che mi appartengono.
Che abbiano ragione Pamuk e persino Baricco a proposito delle età decisive?

mercoledì 23 marzo 2011

Rijksmuseum

Visitare il Museo Statale di Amsterdam fa comprendere immediatamente l’evoluzione del pensiero pittorico di Rubens. Seguendo il percorso che è sommessamente suggerito, si scopre il primo Rubens sublimemente didascalico, dai mille particolari descritti alla fiamminga nella brillantezza della loro luce. Si assiste poi alle tappe del percorso che lo porterà a capire come la pittura non sia fotografia (più di due secoli prima dell’invenzione di questa), ma trasmissione di valori. In dialogo con Caravaggio, ma anche con i grandi veneti del ‘500 (cui pure il lombardo doveva qualcosa), si ribella alla concezione del pittore descrittore per volgersi al pittore poeta. Passa dal racconto, o anche romanzo, alla poesia: lirica o epica o cosa, ma poesia. Ut pictura poësis, da Orazio e ancora.
E dopo Rubens, il Secolo d’Oro. Forse soffocato da troppa ricchezza?
Eppure, Hals coi suoi tratti quasi buttati via raccoglie parte della poesia rubensiana. Ma la vera essenza di questa non era la scrittura, era la sua moralità.
Questo poteva non averlo capito Pieter de Hoch. Non Vermeer.
La luce crea, la vita è per la luce. Tutto il creato è a causa della luce. Non come in Caravaggio, per il quale il valore e la forza morali della luce portano la vita, sottratta così a malapena, seppur intensamente, alla tenebra di un peccato ch’egli conosceva bene.
Vermeer non conosceva il peccato? C’è un’ombra nei suoi dipinti, ma è leggera: il peccato può arrivare, caderci non è difficile, ma tanta è la luce!
Non è però una luce che esplode miracolosa come per il borromeiano Caravaggio. È una luce di tutti i giorni, miracolo perpetuo concesso gratuitamente da Dio.

martedì 22 marzo 2011

Oro

La via dell’oro! C’è un ché di volgare e di sublime in questi negozi accatastati nei dintorni del Monte di Pietà. Sottindendono molto. Storie di ricchezze ammassate con lunghe ore di lavoro sudicio. Storie di pelo. Storie di miserie improvvise e di orgogli ultimi a morire.
Storie di speranze e di prime soddisfazioni.
Che vi siano anche storie di stile mi sembra dura, ma in fondo lo stile se lo possono permettere i pochi che hanno il tempo per pensarci.
Ogni gioiello non nuovo mi palesa una sofferenza, ognuno nuovo una certa dose di peccato. Oh, ho detto peccato! Parola desueta…
Inciampando sui selci, una vetrina mi attira. Entro, è pronto ad aspettarmi quello che cercavo. Dal peccato al miracolo.

giovedì 17 marzo 2011

Rimorso versus rimpianto

C’è una frase che molti pronunciano con una sorta di convinzione orgogliosa: “Preferisco avere rimorsi che rimpianti.”
Io no.
Chi la dice vuole affermare, prima di tutto a se stesso, di essere qualcuno che morde la vita, che si butta nelle occasioni, che non indugia nelle masturbazioni. No, non posso essere d’accordo. Lo sarei se vivessimo da soli, ciascuno da solo, faccia a faccia con la Natura. Anche così, in questo mondo strano in cui ci troviamo, il rimpianto di non avere visto oltre la cresta o di non arrivare alla prossima isola lo trovo insostenibile.
Però il problema è che soli non viviamo.
Forse tutti quelli che si riempiono di quella frase conoscono il significato delle due parole rimorso e rimpianto? Spiega Wikipedia: “Il rimorso è un'emozione sperimentata da chi ritiene di aver tenuto azioni o comportamenti contrari al proprio codice morale. Il rimorso produce il senso di colpa. Il rimorso è caratterizzato da uno stato di pena, di turbamento della mente, di riflessione interiore, di non serenità, di dolore morale che provoca una sensazione di rammarico. Le persone incapaci di provare rimorso [trattano] gli altri esseri umani secondo i propri bisogni narcisistici, secondo modalità prive di empatia.” Mentre il rimpianto è un “sentimento di dispiacere che prende qualcuno per qualcosa che non si è fatto in un passato più o meno recente”.
Dunque se fossimo soli potremmo fronteggiare il nostro rimorso, riguarderebbe noi stessi e sarebbero problemi nostri. Ma se invece il rimorso scaturisce dall’egoismo e dall’egotismo, se quindi l’infrazione del codice morale procura male agli altri, meglio non fare, meglio lasciare su se stessi il rimpianto.
Rimorso è perché te ne sei fregato del prossimo, rimpianto è perché hai rinunciato a farlo.
Credo che l’orgoglio con cui tanti rivendicano quella loro scelta sia un chiaro segno della nostra miseria umana.

martedì 15 marzo 2011

In noi il demonio

De André, presentando “Amico fragile”, raccontò che la sera in cui scrisse la canzone con quei borghesi da quattro soldi di Gallura avrebbe voluto parlare del fatto che Paolo VI aveva dichiarato l’esistenza del diavolo. Credo lasciasse intendere che avesse voglia di manifestare il proprio sgomento per l’affermazione.
D’altronde se non credi in Dio perché dovresti credere nel demonio?
Ma allora come si chiama quell’essere rosso che vedo al posto di una persona la quale, smarrito il controllo censorio di sé, si lascia andare alla violenza, all’odio, alla sopraffazione totale e se ne ubriaca irragionevole? Rosso in viso, trasfigurato, l’occhio non più umano, la voce arretrata nella faringe: spento il cervello, si accende qualcos’altro, un qualcosa che letteralmente si impossessa di quel corpo. Invasato, posseduto, indemoniato; tante definizioni sono state date da chi ha visto un uomo non essere più tale. Non parlo d’ira qualunque. Parlo di uno stadio ulteriore, quando un uomo smette d’esserlo e le sue urla non hanno più niente d’umano, quando la sua forza non corrisponde alle sue possibilità, quando arrecare danni agli altri è una gioia, quando ci si mette alla ricerca del male. In quei momenti è palese che c’è un diverso essere dentro quell’uomo. Se Dio è in noi, c’è maledettamente anche il demonio.
Vorrei che tutti quegli scemi ragazzotti che s’inventano giochi satanisti si trovassero alle prese con una simile situazione. Fronteggia tuo nonno che a ottant’anni spacca tavoli e urla come un vitello sgozzato, sostieni il suo sguardo inverecondo, prova a parlargli razionalmente, scansa i suoi calci, guardagli la bava colare dalla bocca nera sul mento rosso; poi mettiti come nickname Daemon Lilith, cogliona!
E io ho il dubbio che, non De André, ma quel Fabrizio dalla parte dei poveri o buoni diavoli non tanto non credesse in Dio quanto detestasse i diavoli cattivi.

venerdì 11 marzo 2011

Triste Paese

Assistetti a un congresso di pedagogisti. Erano di varie correnti di pensiero e di altrettanti orientamenti politici. Tutti si lamentavano della scuola italiana e dell’università e della ricerca. Ovvero: della politica che le trascura. Altre nazioni assegnano due volte mezzo di quanto non faccia l’Italia, in percentuale rispetto al PIL.
Triste Paese quello che non investe nel proprio futuro.
Trent’anni fa si correva la mattina per un posto delle prime file nelle aule di Fisica. Oggi ci sono quattro gatti. Allora incontravi professori giapponesi sulla porta dei bagni, ed erano imbarazzanti sequele di inchini fuori tempo. Ora che bisogna cercarsi un posto da ricercatore a Praga, fuori tempo siamo noi. Perché l’Università di Praga compra il macchinario che serve a quella ricerca, e poi sfrutta il brevetto che ne consegue.
Triste Paese quello che non vede il proprio futuro.
Molti scappano, molti ci pensano, pochissimi ritornano. Se non fuori tempo massimo. La crisi è mondiale però qui non si percepisce come contingente, ma duratura con rischio di eterna. Da tempo calano i figli; ci si sposa meno; si comprano tombe per non farle gravare sui discendenti. Quattro soldi: si spendono a mangiare. Sembra un comportamento animale. Gli animali non conoscono il domani, solo un’alba già vissuta. Ma l’aggressività della società italiana non la descriverebbe Lorenz. Si azzanna per vincere subito tra le belve, non si ragiona per costruire un avvenire da uomini.
Triste Paese quello che non crede nel proprio futuro.

martedì 8 marzo 2011

Ciao Bernie

Ciao Bernardo,
non si fa così! Da oggi questo mondo, questo ufficio dove sei stramazzato non visto, sono un po' più amari.
I ragazzi non dovrebbero morire mai, forse per questo lo eri rimasto tuttora.
Siamo costretti a continuare. Incontreremo ancora in ogni corridoio la tua bonarietà. E ci farà male che non sia tu a portarla.
Ora raggiungi i tuoi amati morti del cimitero, quel cimitero dietro qualche curva, nascosto alla vista del paese da decomposta fiera, dove ti regalavi momenti di serenità. Solo: con le tue malinconie a cullarti, altrimenti sempre ricacciate dal sorriso.
E certo in molti
sappiamo
che vivesti
RIP

lunedì 7 marzo 2011

Nelsa

Sei anni fa incarnai i miei dolori sulla donna africana in una ragazza molto simpatica e piena di voglia di vivere. Chiamai col suo nome alcuni versi ignoranti che dedicai alla mia sofferenza per il troppo che vedevo.

Para a Nelsa de Nhabanda



Nelsa trasuda amore
per i cocchi piangenti
per ciascuna persona
che si lega allo sguardo
per riviverla in sé
nell’anelante palpito
del suo cuore tradibile


Chi sei, che futuro avrai?


Bambina in corpo di donna
i tuoi occhi ancora brillano
di desiderio di vita
e già i tuoi seni duri
parlerebbero di latte
(innocentemente bianco)
e rorida la tua pelle
si emoziona anche di te
mentre baci estranee guance


Fuori di tutto tu sei


Fiera stretta nel completo
della scuola ti arricchisci
dei sogni che sai esistere
fasciata da capulane
quando triti a mano il cocco
non appartieni che al povero
destino, così appari,
d’una palhota a Nhabanda

Sarai solo una ragazza?


O in fattrice sfumerai?


Nelsa non metter su culo
non prolassare gli zigomi
mai non perderti nel mato
resisti, resisti e lotta,
seppur dolci sempre i pesi
al collo pesano il loro
e atrapalhâo a tua vida
che non merita rimpianti
di occasioni evaporate


Vivi a colpi di sorriso


Nelsa che cazzo ti ridi
non sai già il tuo futuro
schiacciato sotto un bidone
di plastica gialla o blu
Nelsa e il tuo scoppio d’orgoglio
a mais fotografada do Môngué
dove poserai le voglie
che ieri digitalmente
un obiettivo fissò?


A scelte binarie négati


Un altro me t’amerebbe
Nelsa dolce, Nelsa sapida,
Nelsa e basta, Nelsa bella
che a una cultura non so
sola affidare quest’essere
fermentante nero zucchero
di trasformazione a rischio
in bianchi acidi letali
mascherati da promesse


Separa da morte amore


Nelsa dolce sapore
assaporato in fretta
tra i rossi di Nhabanda
di Maxixe e di Môngué
questo pianto per te
non è che un altro flebile
canto al sogno tuo d’Africa


Ora ho rincontrato Nelsa, la Nelsa di Nhabanda, quella che fu la più fotografata a Môngué, in un momento fuggevole. Un po’ di culo l’ha messo su, ma studia all’università ed è ancora piena di cose. I suoi occhi sempre accecanti di curiosità.

sabato 5 marzo 2011

Riunioni inutili

Perché pochi impongono il loro modo a molti?
È perché essi sono i soli che si offrono per organizzare? Oppure nessun altro lo fa perché ci sono già quei pochi?
Ma perché quei tanti non fanno una rivoluzione e accoppano, o comunque estromettono - anche se una botta in testa la meriterebbero, anzi un manrovescio sulla ganascia, ché davvero sono insopportabili, in più con quel loro fare minimalista, che è falso, Dio se è falso - i pochi?
I miei pensieri s’incatenano tra loro e, senza accorgersene, anche a un qualche palo che li àncora al giudizio.

venerdì 4 marzo 2011

Chi è l'autore?

Insomma, questo palazzetto è proprio bello. C’è una nuova architettura a Roma. Non strombazzata come altre, di dimensioni contenute, è un’edilizia di sostituzione, lungo la via Ostiense, nella zona degli insediamenti industriali di primo Novecento. Credo appena consegnato, non so cosa ci sia dentro. Uffici, è da supporre. O forse anche abitazioni: allora costose. Oggi riesco a vederlo anche dall’alto. Godo della vista del tetto modellato nella sua aperta concavità da un tratto di ampia circonferenza.
Ci tornerò per fargli una fotografia di mattina, verso le 11, direi, quando il sole illuminerà la facciata lungo la via ma sarà anche abbastanza laterale da far risaltare la volumetria di certe diagonali che partono dalla tettoietta che copre l’ingresso, si addossano e decrescendo salgono lungo la stretta vetrata che taglia verticalmente la facciata.
Cerco di immaginarmi come sarà questo quartiere tra qualche anno, dopo tutti gli interventi che lo stanno ammodernando. Gli ex Mercati Generali sono penetrati da un’immensa travatura bianca, al momento appoggiata al suolo, dove manda fuori proporzione i relitti dell’espansione industriale di primo Novecento. Dall’alto vedo anche l’opposta riva del Tevere. Sullo sfondo la cortina dei palazzoni orrendi, visti da dietro sembrano sorpresi in mutande: davanti quella landa a lungo dimenticata e ora in corso di lenta e contrastata riqualificazione. Tra recuperi di archeologia industriale, coraggiosi tentativi urbanistici e banalità però pulite, le due sponde del fiume sembrano far muovere qualcosa in questa città dove la storia presta alibi all’ignavia.
Poi fanno (altrove, in zona prossima ai ricchi) un’ottima architettura ma la rivestono degli orrendi mattoncini di troppe parrocchie di periferia. Almeno la leggessero bene, la storia.

giovedì 3 marzo 2011

Un grande campeggio fuori stagione

Il Mozambico è un grande campeggio. Fuori stagione.
Sì, decisamente. Fuori d’ogni stagione data agli umani. Sabbia tendente al rosso ovunque, sulle strade di sabbia e sulle strade di puzza nera, sotto le infradito e dentro i piedi, intorno alle radici di colture che soffrono il loro essere costrette laggiù. Non gli umani né le piante da alimentazione, solo gli alberi possono affondare le radici più sotto e fanno ombra, un’ombra sempre sfruttata in un immutevole fuori stagione.
Quante storie sottende il Mozambico: tragedie enormi e piccole banalità, in un afflato dolciastro soffiato dai venti dell’oceano. Lungo l’Oceano Índico si affolla la vita del Paese, più qualcosa lungo i corridoi che mettono in comunicazione questo con i Paesi dell’entroterra dell’Africa australe.
Sono storie di schiavitù e guerra intestina, racconti di fiabe morali e cronache di aberrazioni delle coscienze. Ma sono anche ricordi di sorrisi e di occhi, teneri e potenti nella malinconia di un estate lontana quando anche quasi costante nel clima. Sono descrizioni di vite distanti da noi non solo per la geografia. Speranze, delusioni, tentativi; caparbietà e sconsolata contemplazione dei giorni.
Sono le storie di Luis e della sua ferita in testa o di Ermelinda e dei tre anni di vita che ha perso; quelle indecifrabili di Agostino e del suo rapporto da italiano con i locali o di Beatriz e dell’energia con la quale prepara la missa das crianças; sino alle mille e mille di donne e bambini sotto bidoni pieni d’acqua e agli altrettanti sorrisi con i quali salutano la storia di te che passi.
Raccontarle non è facile; ma forse ci proverò.