martedì 15 marzo 2011

In noi il demonio

De André, presentando “Amico fragile”, raccontò che la sera in cui scrisse la canzone con quei borghesi da quattro soldi di Gallura avrebbe voluto parlare del fatto che Paolo VI aveva dichiarato l’esistenza del diavolo. Credo lasciasse intendere che avesse voglia di manifestare il proprio sgomento per l’affermazione.
D’altronde se non credi in Dio perché dovresti credere nel demonio?
Ma allora come si chiama quell’essere rosso che vedo al posto di una persona la quale, smarrito il controllo censorio di sé, si lascia andare alla violenza, all’odio, alla sopraffazione totale e se ne ubriaca irragionevole? Rosso in viso, trasfigurato, l’occhio non più umano, la voce arretrata nella faringe: spento il cervello, si accende qualcos’altro, un qualcosa che letteralmente si impossessa di quel corpo. Invasato, posseduto, indemoniato; tante definizioni sono state date da chi ha visto un uomo non essere più tale. Non parlo d’ira qualunque. Parlo di uno stadio ulteriore, quando un uomo smette d’esserlo e le sue urla non hanno più niente d’umano, quando la sua forza non corrisponde alle sue possibilità, quando arrecare danni agli altri è una gioia, quando ci si mette alla ricerca del male. In quei momenti è palese che c’è un diverso essere dentro quell’uomo. Se Dio è in noi, c’è maledettamente anche il demonio.
Vorrei che tutti quegli scemi ragazzotti che s’inventano giochi satanisti si trovassero alle prese con una simile situazione. Fronteggia tuo nonno che a ottant’anni spacca tavoli e urla come un vitello sgozzato, sostieni il suo sguardo inverecondo, prova a parlargli razionalmente, scansa i suoi calci, guardagli la bava colare dalla bocca nera sul mento rosso; poi mettiti come nickname Daemon Lilith, cogliona!
E io ho il dubbio che, non De André, ma quel Fabrizio dalla parte dei poveri o buoni diavoli non tanto non credesse in Dio quanto detestasse i diavoli cattivi.

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