lunedì 16 maggio 2011

Lisbona

Riatterrando a Lisbona, rivedendo i suoi ponti, i suoi tetti, le sue palazzine tenuamente colorate, provai un sentimento di dolcezza. Come di ritorno a casa. Un sapore nella bocca di cose domestiche. Un po’ come quando durante un viaggio sperimenti gusti diversi. Da quelli standard dei pasti a catena alle particolarità degli angoli del mondo. Poi rientri nel tuo quartiere. L’aria ti fa riassaporare le caramelle del droghiere e il cornetto della domenica mattina. Fino alla tua molto personale miscela del caffellatte di casa con i biscotti, sempre quelli.
Erano forse i pastéis de Belém? Era loro la colpa; no, piuttosto il merito?
E perché nella terra di Saramago i miei pensieri conoscevano frasi corte? Quanto avrei voluto potere e sapere litigare con lui. Senza paure di confronto. E non sulla lunghezza delle frasi.
Ma quale Lisbona amo? Non quella della Baixa, troppo compiaciuta delle sue croste, l’Alfama mi sa troppo di trappola finto non-turistica, il Barrio Alto solo in piccoli scorci, Belém è troppo stretta. La prima periferia non sa di nulla, la più recente è inutilmente pastello, la zona di Expositioes sembra un gioco deserto. Quale Lisbona dunque?
La Avenida da Libertade è troppo larga, bei negozi ce ne sono ma chissenefrega, sa di morte. Il Centro Comercial das Amoreiras è niente male opprimente e non un gelso dà ombra alla zona che ne reca il nome. Il Parque Eduardo VII è invero stucchevole. Il monumento ai navigatori, lasciar perdere; e se è questo un po’ il simbolo della città…
Ma è proprio questo il segno dell’amore. Non si ama una persona perché ha un bel sedere. Ci può invogliare, ma non ci suscita un senso di eternità. Non la si ama per gli occhi che ha, ma per quello che ci comunicano. Non per le parole che dice, ma perché le dice a noi e dice quelle.
E Lisbona mi ha detto tante parole. Le porto ora incise nell’animo, più aperto dopo di lei.

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