martedì 19 aprile 2011

Gerusalemme

Sarà stato alto sui cinque metri. Grigio.
Ci comparve davanti all’improvviso mentre avevamo smarrito la strada per Gerico. Sporco.
Impediva di proseguire con improvvisa tracotanza. Zitto.

Dicono che ci siano due città, ma ne individuai almeno cinque. Tre sono unite e in qualche caso un po’ mischiate, se non mescolate. Una ancora è virtuale, vera quando la consideri. Un’altra è separata da tutto, incredibilmente anche da sua sorella.

La culla delle tre grandi religioni monoteiste è arroccata sullo spartiacque di una catena interna parallela alla costa. A ovest le pinete di aromi mediterranei, le vallette coltivabili, le case in pietra di sapore latino, la terra, i fiori e i frutti. A est il deserto.
Gli arabi stanno a est.

Si arriva, come arrivammo noi, salendo. Respirando: odori reali e arie fittizie, come ce ne riempimmo. Poi non vedendo finché non si vuole vedere ciò che era in sé e aspettava d’esser visto. Come facemmo noi.
Forse già pieni di deserto, oppure solo sporchi di sabbia e di vento.
Certo impropri a quelle strade e quelle mura, avulsi dal mistero e dallo scontato, lontani da ogni recondita mistica così come da tutte le palesi mercificazioni. Con una preparazione minima, distante nel tempo, carichi di raffazzonati concetti mai sviscerati, da soli; con rischi di perdite e perdizioni.
D’altronde già perso, io, nella luce bambina di occhi che piansero.
Così, insanamente inconsapevoli approcciammo la città, le città; immergendoci incoscienti però senza bombole, respirando l’aria vera del posto, con tutti i rischi del caso.
Che è il modo migliore di vivere Gerusalemme.

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