giovedì 28 aprile 2011

Zeus e Mnemosine 3

La Quinta del Sordo di Goya non è forse una “caverna di Platone” da dentro la quale egli impara a dare forma e sostanza alle ombre proiettate all’interno? Nel mito platonico, non sono ombre di uomini, ma di statue. Ora sono ombre appartenenti a dimensioni non consce che il grande saragozzano vede e fissa sulle pareti della Quinta, cioè simulacri di aspetti della natura umana nascosti e coperti dal sonno della ragione. E quando esce, se ne ricorda: in quei ritratti ufficiali che esegue, non ci lascia scorgere quelle stesse ombre – terribili, grottesche, appartenenti a una realtà coperta – sui volti insani di una dinastia cadente che priva di ragione naturale si concede alla mostruosità? Noi impariamo molto su noi stessi ammirando quella produzione pittorica. Il poeta francese Yves Bonnefoy, riscontrando difficoltà a comprendere la pittura di Goya attraverso quella della sua epoca, propone una via nuova, empatica tra opera d’arte e fruitore. Per comprendere gli abissi di Goya è necessario prestare attenzione a quello che proviamo noi stessi quando osserviamo le sue opere[1].
Canova ci ha risvegliato tutto il senso di paura e di smarrimento di fronte al buio e all’ignoto, metafore nemmeno troppo astratte della morte, semplicemente ricavando, nelle sue tombe monumentali, degli anditi alle camere sepolcrali che si presentano come negazione della luce, tanto riverberata sui marmi bianchi quanto assente in quelle misteriose porte aperte su un’oscurità che è tanto più assoluta quanto più è confrontata con la relatività delle figure umane, da un lato, e da un altro con il modello di forma assoluta che è la piramide, come nel Monumento a Maria Cristina d’Austria di Vienna[2].
Klee ha invece dato spazio al ricordo delle pulsioni dell’infanzia e dell’adolescenza, vive nell’adulto in stati di coscienza che ha indagato e indaga la psicanalisi. “Ma quella della prima infanzia non è affatto una condizione di primitività assoluta, di non esperienza; su ogni vita che nasce molte vite vissute hanno lasciato l’impronta della loro esperienza.”[3] Non ripetendo le cose visibili ma rendendo visibili le cose, cioè la realtà, attraverso il connotato del gioco, egli ha negato proprio la realtà immanente. Infatti, per Freud il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale. Klee pretende di educarci liberando la fantasia[4].



[1] Y. Bonnefoy, Goya, le pitture nere, trad. it., Donzelli, Roma 2006.
[2] Cfr. in proposito G. C. Argan, Studi e note. Dal Bramante a Canova, Bulzoni, Roma 1970.
[3] G. C. Argan, L’arte moderna, RCS Sansoni Editore, Firenze 1990, p. 247.
[4] Anche l’artista svizzero ha lasciato in forma di saggio le proprie convinzioni: P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, trad. it., Feltrinelli, Milano 1959.

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